«Assomiglia in modo inquietante a un necrologio» scriveva nel 2008 Miguel Marías introducendo il libro di memorie di Javier Marías, suo fratello minore e insieme lo scrittore famoso che tutti conosciamo. Adesso che La metà del mio tempo. Guardando indietro esce in Italia (Einaudi, pagg. 392, euro 22, traduzione di Maria Nicola), quella somiglianza è resa ancora più acuta dal fatto che, due anni fa, settantunenne, Javier Marías è morto e l'arco di tempo che intercorre fra le due date è come se non fosse mai esistito e tutto, più o meno consapevolmente, fosse già avvenuto. Del resto, il tempo che fugge era proprio la cosa che Marías temeva di più, per la devastazione che quello scorrere comportava, il venir meno di amicizie, parentele, abitudini, usi, persino ricordi, il dover constatare che se il proprio Io continuava a esistere, lo era al prezzo di una solitudine sempre maggiore, guardarsi attorno e non riconoscere più quello che una volta era stato un panorama decifrabile, guardarsi allo specchio e ritrovarsi di fronte il volto di uno sconosciuto...
A lungo Javier Marías era stato lo scrittore giovane per eccellenza della narrativa spagnola. Non tanto e non solo perché aveva esordito a nemmeno vent'anni, ma perché un bell'aspetto, sfrontato e insieme femmineo, più da artista quasi di strada che da intellettuale da biblioteca ne avevano accompagnato il percorso all'interno di quel post-franchismo in cui esso veniva compiendosi. «Autoritratto briccone» è il capitolo anche fotografico che lo riassume, dall'adolescenza a una maturità che, una volta superati i quarantacinque anni, dovrebbe prepararci alla vecchiaia. La sensazione che emana da quelle foto è che se la vita gli ha insegnato, come egli stesso scrive, la rassegnazione e la pietà, è quella giovinezza ormai inafferrabile a continuare a perseguitarlo, un qualcosa che si riteneva eterno e che poi un giorno all'improvviso capisci non essere più tuo.
Dello scrittore giovane Marías aveva però altri due elementi importanti. Il primo era che il suo esordio all'inizio degli anni Settanta coincideva con la fase terminale del franchismo (il Generalissimo morirà, dopo una lunga malattia, nel 1975); il secondo l'essere figlio di uno di quegli esponenti del cosiddetto «esilio interiore», repubblicani rimasti fedeli alla Repubblica sconfitta, ma che, a guerra civile finita, dalla Spagna non se n'erano andati, finendo sì emarginati nelle loro professioni, ma non perseguitati.
Ciò darà a Marías nel nuovo corso democratico una luce tutta propria, come se fosse la sua stessa scrittura a battezzare quell'inizio, come se in essa la modernità spazzasse via ciò che c'era stato prima, i compromessi e le furbizie, gli odi e la ferocia, il sospetto, la delazione e la paura, la dittatura, in una parola. I periodi trascorsi da bambino con la famiglia negli Stati Uniti, gli studi di filologia inglese, la passione per l'Inghilterra, l'amore per il cinema americano e quello, ricambiato, per il gentil sesso, ne fecero una figura esemplare, in positivo come in negativo, di quella movida madrilena che tra la fine dei Settanta e gli anni Ottanta cambiò radicalmente il volto del Paese. Eppure, e facendo astrazione da quella che è la sua narrativa, il modo in cui i suoi romanzi sono costruiti, il mondo di Marías è assolutamente antimoderno, sia nei suoi aspetti esteriori, niente blog, computer, cellulari, sia interiormente, attraversato com'è da un lancinante senso di perdita per ciò che è stato.
Il titolo del libro, La metà del mio tempo, rimanda alla morte della madre, avvenuta quando lo scrittore era ventiseienne e ricordata in un articolo scritto quando ne aveva cinquantadue, ma metaforicamente ha a che fare con l'idea del ricordo da un lato, che ci resti ancora molto tempo davanti dall'altro: «Ancora oggi mi è difficile vedere ciò che è successo come alle mie spalle (...). I tempi e le persone che oggettivamente sono scomparsi, dentro di me non sono scomparsi affatto. E in fin dei conti, io credo, è così per tutti: perfino per coloro che si vantano di non guardarsi mai alle spalle. Perfino costoro portano sempre con sé, senza saperlo, quella metà del loro tempo, la parte già trascorsa. Perché quella è - e sarà, per quanti anni passino - la metà che ci ha formati, quella che ci orienta, che ci accompagna, che ci conferisce un'identità, la metà del nostro tempo che ci permette di intuire quello che siamo, o piuttosto quello che a poco a poco stiamo diventando. E così fino a quando anche l'ultimo giorno sarà arrivato».
Questo attaccamento al passato, che poi fondamentalmente è un non volersi staccare dalla nostra giovinezza, infantile e/o adolescenziale che sia, quando tutto è ancora possibile e non sarà mai tardi per un domani, ha anche molto a che fare con la componente anagrafica di Marías, che appartiene alla generazione nata negli anni Cinquanta, l'ultima che si possa definire completamente analogica e ancora in grado di comprendere ciò che era stato il mondo dei grandi che l'aveva preceduta, perché i cambiamenti erano stati non significativi e avvenuti comunque con una lentezza che permetteva di metabolizzarli. Dai giochi all'abbigliamento, ai divertimenti, ai codici comportamentali, al rapporto fra i sessi, agli stessi paesaggi, lì dove la violenza bellica non era intervenuta, fra il bambino degli anni Trenta e Quaranta e quello degli anni Cinquanta e Sessanta il passaggio di consegne e insieme la continuità erano assicurati, ed è proprio il rendersi conto che in seguito la cesura si fa sempre più profonda a provocare in Marías un dolore che è insieme un rifiuto: «Nulla ci sconforta come scoprire che qualcosa, sia pure senza importanza, è cambiato o sparito (...) e il nostro pensiero viene a essere questo: Me lo hanno cambiato, con quel me così significativo, perché lo sentiamo come un attentato contro l'ordine del nostro mondo e la nostra memoria personale dei luoghi». E ancora: «Ci sembra momentaneamente impossibile un mondo in cui non ci siano più loro, gli idoli, perché il mondo che rimane ci appare meno mondo senza di loro o, per meglio dire, meno nostro».
È la sensazione di ridursi sempre più a «fantasmi viventi, ciascuno per suo conto» quella che anima La metà del mio tempo e la ragione anche del suo fascino, proprio perché ogni assenza provoca il ricordo e quindi il racconto di ciò che a lungo era stata una presenza: amicale, sentimentale, familiare, persino gerarchica, nei rapporti fra maestro e allievo, padre e figlio...
Rispetto alla sua produzione romanzesca, che personalmente ci è quasi sempre apparsa fredda e insieme artificiale, complicata da una scrittura tutta parentesi e subordinate, qui lo stile risulta spontaneo e affettuosamente ironico, partecipe, ma mai autoriale, proprio di chi non vuole prendersi troppo sul serio, perché poi è la vita stessa a dircelo, a farci capire di quante illusioni ci ostiniamo a riempirla e di come sia l'effimero ciò che alla fine vince: «Le cose non durano, oggi più che mai, siamo alla mercé dei nostri contemporanei. Appena non sei più in grado di difendere le tue opere, smetti letteralmente di esistere. Subisci una specie di castigo».
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