Margherita di Savoia, la regina che fece l'Italia

Figura poco studiata dagli storici, fu fondamentale ai fini della «nazionalizzazione» della monarchia

Margherita di Savoia, la regina che fece l'Italia

Uno dei più popolari scrittori italiani della prima metà del Novecento, Salvator Gotta (1887-1980), l'autore del celeberrimo Il piccolo alpino e dei romanzi della «Saga dei Vela», ripercorrendo ormai anziano, in un gustoso almanacco autobiografico, gli incontri più significativi della sua lunga vita, volle ricordare l'impressione che fece a lui, allora bambino di appena otto anni, la vista della regina Margherita e di re Umberto. Era l'estate del 1895 e la coppia reale era giunta a cacciare il camoscio in Valle dell'Orco dove anche i Gotta, originari della zona, stavano villeggiando. A distanza di tanti decenni alla mente dello scrittore tornava come «un'immagine non fissa ma vaporosa e cangiante, più sogno che materia» quella della regina che «nel pieno fulgore della sua bellezza, vestiva un abito grigio perla» e i cui «capelli biondi, il suo viso chiaro e sorridente» gli apparvero «come trascolorati dai copiosi veli perlacei, lievissimi, che ornavano il suo grande cappello di paglia».

Il fatto che quel bambino, destinato a diventare un narratore famoso, fosse rimasto colpito dalla sovrana ormai quarantaquattrenne fino al punto di fissarne le fattezze in maniera indelebile nella memoria, è indicativo del fascino che Margherita di Savoia (Torino, 1851 - Bordighera, 1926) esercitò sui contemporanei. Un fascino del quale, per inciso, rimase vittima, al solo ammirarla da lontano, anche il poeta repubblicano e massone Giosuè Carducci, che ne divenne un cantore appassionato.

Che Margherita, la bella figlia di Elisabetta di Sassonia sposata al cugino Umberto I di Savoia in base a un matrimonio combinato, fosse riuscita a conquistare il cuore degli italiani lo dimostrò bene il trasporto delle sue spoglie da Bordighera a Roma - siamo nel 1926 - su un treno che impiegò quasi ventiquattro ore per giungere a destinazione e dovette fermarsi novantadue volte per consentire agli abitanti dei paesi attraversati di rendere l'ultimo omaggio alla prima regina d'Italia. Non a caso il più importante quotidiano del tempo scrisse che la sua salma era assurta a simbolo di italianità.

A questa figura, poco indagata dalla storiografia, Luciano Regolo ha dedicato una voluminosa e accurata biografia dal titolo Margherita di Savoia. I segreti di una regina (Edizioni Ares, pagg. 824, euro 29,90) che non soltanto ne ricostruisce con puntigliosa meticolosità la vita, utilizzando una grande messe di materiale documentario anche inedito, ma che, soprattutto, consente di coglierne appieno l'importanza storica.

Margherita, in effetti, fu importante nella storia dell'Italia unita non soltanto perché fu la prima, e certo la più amata, delle sovrane, ma soprattutto perché svolse un ruolo fondamentale ai fini della «nazionalizzazione» della monarchia dei Savoia. In un'epoca, quella liberale, nella quale la politica era elitaria e lontana dal popolo, ella si rese conto che, nell'interesse dinastico e per il prestigio della Corona, era necessario ottenere il consenso delle masse popolari e dei ceti borghesi oltre che degli ambienti colti. Con le sue tante iniziative conquistò il favore del Paese e sedusse molti intellettuali, anche di estrazione repubblicana, avvicinandoli alle istituzioni. Sotto questo profilo fu una sovrana che seppe ritagliarsi un vero e proprio ruolo politico in un'epoca e in un modo ancora incapaci di accettare anche solo l'idea o la parvenza della emancipazione femminile. Il lavoro di Luciano Regolo sottolinea, per esempio, il contributo di Margherita, credente e praticante, al disgelo dei rapporti tra i Savoia e la Chiesa dopo la presa di Porta Pia.

Quando la coppia reale, Umberto e Margherita, giunsero a Roma era il primo pomeriggio del 23 gennaio 1871: brutto tempo, pioggia battente, gente assiepata ai lati del corteo con i corazzieri, i lancieri, gli staffieri in livrea rossa. La regina volle «conquistare» la folla curiosa di vedere lei più che Umberto e ordinò di scoprire la carrozza. Fu un gesto che entusiasmò i romani, come narrano i resoconti e le cronache d'epoca. Gli applausi durarono a lungo e i principi, giunti al Quirinale, furono costretti ad affacciarsi più volte.

Ci fu, però, da parte di Margherita un'altra e ben più importante «conquista di Roma». Ella si propone subito di attirare attorno a sé ma di fatto attorno alla dinastia l'aristocrazia romana. Ecco dunque gli inviti al Quirinale per la cosiddetta «nobiltà nera», che, magari, a mezzogiorno era papalina ma la sera, a Corte, si scopriva «savoiarda». Ecco, poi, la valorizzazione della Corte con ricevimenti, feste e balli. Non si trattava di frivolezza fine a se stessa, ma di un investimento politico di immagine che avrebbe dovuto portare la Corte sabauda a un livello di dignità pari a quello delle altre Corti europee. Anche nella scelta delle dame di Corte Margherita operò una rivoluzione. Le nuove dame di Corte avevano sì requisiti araldici, ma soprattutto erano donne colte. Non basta. Prima erano solo piemontesi, adesso, rappresentavano tutta l'Italia: c'erano tre romane, due napoletane, una siciliana, una lombarda e una sola piemontese.

Tutto ciò mostra che Margherita, come scrive Regolo, «non fu di certo estranea alla politica» come sarebbe stato invece il caso di Elena, la moglie di Vittorio Emanuele III, ma, al tempo stesso «non giunse neppure a sfidare apertamente l'establishment del suo tempo come fece invece la moglie di Umberto II, Maria José, capace di piani golpisti contro la dittatura fascista dalla fine degli anni Trenta in poi». Un atteggiamento del genere per lei «avrebbe infranto il senso della regalità al quale aveva improntato la condotta di una vita» e avrebbe nuociuto all'immagine della dinastia della cui storia era diventata una appassionata cultrice.

Circolava a Corte una battuta secondo la quale Umberto sarebbe stato «il principe consorte della Regina Margherita». Ma era una battuta, pur arguta, lontanissima dalla realtà. La Regina diceva di se stessa di essere attratta più dalla poesia che dalla politica e di non avere conoscenze sufficienti. Aveva però un forte sentimento dinastico e un forte spirito nazionalistico unito a una vera e propria passione per i militari. La verità è che, per usare le parole di Regolo, la regina nella politica «mise grazia e prudenza». E ciò anche se, al momento dell'avvento del fascismo e poi durante il regime, lei che ammirava l'«uomo forte» Francesco Crispi e non sopportava Giovanni Giolitti e che era ormai relegata nel ruolo di «regina madre», attenta a sostenere il mito del «re martire», il ricordo cioè del marito, il «re buono» assassinato dall'anarchico Bresci all'inizio del secolo in più occasioni manifestò simpatia per Mussolini e per il fascismo nel quale vedeva un movimento d'ordine, una specie di assicurazione contro il pericolo delle rivoluzioni e dell'anarchia.

Donna di intelligenza vivace, forte di carattere, con una passione per i castelli, le parate militari, le uniformi e la storia dei Savoia, era anche più colta di quanto si pensi: amava la poesia, i classici, traduceva in francese i versi di Elisabeth Browning, discuteva di Dante, Shakespeare, Hugo e godeva fama, forse esagerata, di poetessa.

Ma era anche una donna moderna come dimostra il fatto che fu tra le prime a guidare l'auto. Il volume di Luciano Regolo ne offre un ritratto affascinante, a tutto tondo, inserito in un grande affresco della storia dell'Italia dei primi decenni del Novecento.

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