Ce ne ha messo di tempo il più famoso vino siciliano a diventare siciliano. Eppure il Marsala è un esempio romanzesco di made in Italy da esportazione. E di eterogenesi dei fini enologica.
La sua parte nel 1773, quando un commerciante inglese, tale John Woodhouse da Liverpool, sbarca nel porto del Trapanese c'è chi dice in seguito a un naufragio, più probabilmente perché traffica in barrilla, una certa cenere di soda impiegata nella produzione del vetro e del sapone. Sono anni in cui gli inglesi la fanno da padroni nel Mediterraneo, imperialisti e viaggiatori. Woodhouse in quei suoi giorni siciliani deve pur mangiare, deve pur bere. E in una certa taverna si imbatte in un vino locale, tenuto in gran conto dalla popolazione locale, il perpetuum, così detto perché affinato in botti dalle quali il prodotto viene prelevato all'occorrenza e a ogni nuova vendemmia rabboccato. Si ottiene così un vino che è la compilation di tutte le annate trascorse. Woodhouse se ne invaghisce, sono anni in cui i vini portoghesi e spagnoli riempiono i calici sulle tavole dei sudditi di sua maestà, e decide di provare a proporlo ai suoi connazionali. Ne acquista, recitano i registri, 60 botti da 412 litri, in ciascuna delle quale infila anche del brandy in misura di due galloni (9,08 litri), per evitare che il viaggio faccia decadere le ruvide virtù di quel vino. Non si tratta di un'ispirazione estemporanea, sono anni in cui i vini liquorosi di Jerez, di Madeira e di Porto seducono gli inglesi, e probabilmente Woodhouse ha già in mente un vino di Marsala «all'uso di Madera». Fatto sta che agli inglesi quel vino siciliano piace eccome, anche perché costa anche meno dei concorrenti e Woodhouse, che è un tipo sveglio (ma questo lo abbiamo già capito), si trasferisce in Sicilia è inizia una produzione protoindustriale del Marsala e un commercio stabile. Brigantini attraversano i mari tra la Sicilia e la Gran Bretagna con carichi di Marsala, perfino l'ammiraglio Orazio Nelson ne fa acquistare grandi quantità per alleviare le ugge dei suoi equipaggi durante i lunghi viaggi delle navi della flotta di Sua Maestà. Altri imprenditori inglesi sbarcano a Marsala per far concorrenza a Woodhouse.
A far diventare italiano un vino nato per il diletto dei britannici provvede un intraprendente calabrese, Vincenzo Florio, già titolare della tonnara di Favignana. L'uomo è abituato a pensare in grande e nel 1833 mette su un una fabbrica di dimensioni per l'epoca rimarchevoli per la produzione di vini di Marsala. Gli inizi sono difficili, scalzare gli scaltri inglesi dal loro monopolio si rivela arduo, ma Florio ha dalla sua una invidiabile flotta mercantile con cui spinge forte il suo prodotto e gli inglesi iniziano a familiarizzare con il concetto esotico di un vino italiano venduto da un italiano, che roba.
Il resto è storia, anzi romanzo, dal momento che la saga dei Florio è ben narrata da Stefania Auci nel suo I Leoni di Sicilia, libro il cui successo imprevedibile ha inventato di fatto un nuovo genere letterario, la saga imprenditoriale. I Florio, stretti tra la concorrenza agguerrita degli inglesi e la diffidenza astringente dei siciliani (pur sempre calabresi, sono), riescono a sgominare entrambi e a diventare a loro volta leader del mercato, inaugurando la via italiana al Marsala. Negli anni Venti del Novecento le dinastie familiari del Marsala si rattrappiscono, la Cinzano fa piazza pulita, si pappa la Florio, la Woodhouse e la Ingham-Whitaker e il Marsala si imborghesisce.
Oggi a è commercializzato in differenti tipologie per colore (Oro, Ambra, Rubino), contenuto zuccherino (Secco, Semisecco e Dolce), tempi di invecchiamento e metodo di produzione (Fine, Superiore o Vergine). Gli antichi trionfi sono un ricordo, oggi i vini liquorosi non conoscono gloria, ma ogni tanto il leone di Sicilia ruggisce ancora. E non in inglese.
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