Un Medioevo di luci e di fiamme. "Il nome della rosa" mantiene il suo mistero

Il romanzo di Eco diventa un'opera lirica. Che conquista il pubblico della Scala

Un Medioevo di luci e di fiamme. "Il nome della rosa" mantiene il suo mistero
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In principio erat Verbum. Poi venne la musica.

E così, il romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, bestseller degli anni Ottanta e longseller in quelli successivi - dopo il film, la serie tv, l'adattamento radiofonico e la versione a fumetti che Milo Manara sta completando - è diventato un'opera lirica in due atti. La «Prima» è andata in scena domenica sera al Teatro alla Scala. Musiche di Francesco Filidei, che firma anche il libretto con Stefano Busellato, direttore d'orchestra Ingo Metzmacher e regia di Damiano Michieletto. E un cast imponente: il baritono Lucas Meachem nel ruolo del frate-investigatore Guglielmo da Baskerville; il mezzosoprano Kate Lindsey, che è una donna, in quello di Adso da Melk, il giovane novizio e suo allievo, che è anche il Narratore della storia; Daniela Barcellona, un'altra donna, che è l'inquisitore Bernardo Gui, un coro solenne e poi tutti gli altri personaggi: l'abate, la ragazza del villaggio che seduce Adso e morirà sul rogo come strega, senza che lui ne sappia mai il nome (Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus), il cieco Jorge-Borges, il dolciniano Salvatore («Penitenziagite!») e decine di monaci. L'erborista, il cellario, il bibliotecario... L'elenco, elemento chiave nell'opera di Eco, è lungo. E anche l'opera lo è: tre ore e dieci, più l'intervallo. Ma nessuno si è lamentato, né lo farà.

Lo spettacolo, ed è il parere di un cronista, non di un critico musicale, è splendido. E un giro di pareri fra i vip in sala - i compositori Fabio Vacchi e Salvatore Sciarrino, Silvia Colasanti e Luca Francesconi, la vedova di Eco, Renate, qui con i due figli; Mario Andreose, l'amico editor di Eco; ma c'erano anche Filippo Del Corno, Francesco Micheli, Melania Rizzoli, Andrée Ruth Shammah... lo conferma.

Alla fine sono dodici minuti di applausi, e un paio di «buuu» (che sbagliano il bersaglio: arrivano quando esce il maestro del coro, ma forse erano indirizzati a Filidei) e commenti entusiasti nel foyer già alla fine del primo atto (che si chiude con l'incontro nella cucina dell'abbazia tra Adso e la ragazza, fra estasi, carne, Cantico dei cantici e deliquio) e ancora più a sipario chiuso. E comunque tutte e cinque le rappresentazioni sono già esaurite.

Com'è Il nome della rosa all'opera? È un continuo susseguirsi di immagini visive e sonore da cui esce un Medioevo visionario, colorato (il saio grigio francescano e quello bianco dei benedettini a un certo punto diventano azzurri e rossi), a volte asettico (le barelle con i cadaveri dei monaci), insolitamente luminoso. Eppure il mistero resta. Al centro di tutto, in fondo, c'è un libro maledetto.

L'abbazia ottagonale di organza e luce svetta sulla scena, il coro seduto là in alto, in una doppia fila di scranni, sfoglia manoscritti le cui pagine bianche lampeggiano nella penombra, dai codici miniati prendono vita bestie fantastiche mentre la scena è sempre avvolta dalla musica, tra echi gregoriani, barocchi e elettronici, punteggiati dai rumori dell'abbazia: la grandine, le campane, le fiamme...

Tra le scene più belle: l'enorme portale romanico della chiesa dell'Abbazia che prende vita; la disputa teologica sulla povertà di San Francesco; la recitazione degli elenchi dei titoli di libri e delle pietre preziose e - ovviamente l'incendio della biblioteca. In mezzo, avvelenamenti, peccati, eresie, le Sette Trombe dell'Apocalisse, labirinti e pentimenti.

Per il resto, l'opera - che ci

parla anche di Fede - è fedelissima al testo: la trama gialla con i sette omicidi nei sette giorni che costituiscono l'arco temporale del romanzo è perfettamente rispettata. E così anche i puristi non avranno nulla da dire.

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