"La mia vecchia Milano borbotta, ma accoglie tutti"

L'attore comico Enrico Bertolino andrà in scena al Teatro Lirico. "Si può far ridere vestiti in blu, i politici insegnano"

"La mia vecchia Milano borbotta, ma accoglie tutti"
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Il mondo corre e cambia velocemente, noi gli si arranca dietro ma poi se ti guardi attorno non sono poche le cose che hanno solo cambiato nome. Qualche volta, insomma, la modernità è solo un lifting. Per abbagliarci. Inutile dire che uno come Enrico Bertolino, volto celebre del cabaret sul palco e in tv, specialista di ironia, comicità e satira sociale e politica, milanese doc armato di filosofia meneghina, una narrazione così te la smonta in due minuti. Anzi, ne fa un copione da ribaltare. Per riderci su. Così al Teatro Lirico il 16 e il 17 novembre il suo nuovo show «Vecchi si nasce non si diventa» gioca tutto sul rapporto tra età, epoche, città e nazione che cambiano. O fingono di cambiare.

Bertolino lo ammetta, il titolo è un pretesto: siamo a un nuovo capitolo del suo Instant Theatre col binocolo puntato sull'attualità?

«Attualità sì, ma anche recente passato. L'età ormai non segue più le regole: l'anzianità dovrebbe essere la stagione della saggezza, ma ora si vedono dandies che non si rassegnano al passare degli anni e ragionano da ventenni in un involucro da pluri-sessantenni. Poi ci sono i saggi veri, come il nostro presidente Mattarella che deve girare per il mondo per motivi istituzionali, ben oltre gli anni della pensione, per far ragionare un po' tutti. Anche i cinesi».

Ma insomma questo mondo cambia in meglio o in peggio?

«Dipende. Certe volte non cambia: come dico nello spettacolo nessuno inventa niente, si rinnovano solo i termini: l'inclusività? C'era già, la chiamavamo amicizia e accoglienza. La sostenibilità? Si chiamava accortezza, cioè fare attenzione alle persone e alle cose. Lo Smart City concept ? Era il senso della collettività».

La domanda è d'obbligo: davvero vecchi si nasce?

«Diciamo che qualcuno, fuori o dentro, lo nasce. A me è successo fuori: a vent'anni lavoravo già in banca, giacca e cravatta era l'uniforme obbligatoria. La prima me la sono tenuta addosso: anche perché penso che il comico non deve apparire per forza ridicolo o curioso nel look. Io e pure i politici ben vestiti in Parlamento siamo la dimostrazione che si può far ridere anche in giacca blu. Ai primi provini Gino & Michele di Zelig mi dissero che sembravo l'ispettore della Siae. Ma con loro è andata benissimo».

Ci dica un indiscutibile vantaggio della vecchiaia.

«Il principale è poter dire quello che pensi senza dover rendere conto a nessuno. Mi vengono in mente due giornalisti come Biagi e Montanelli, ad esempio. Oggi, se hai una certa età, puoi smontare senza condizionamenti cose come la cultura Woke o il politicamente corretto».

La sua Milan: invecchia o ringiovanisce?

«Diciamo che è una città sempre in bilico fra progresso e tradizione, che invecchia rinnovandosi e si rinnova invecchiando. Ma un certo Dna resta immutato: il milanese borbotta ma accoglie tutto e tutti, mandarin e negher. Usa questa parole ma sempre con affetto».

Il dialetto ha ancora senso?

«Mia figlia ha quindici anni e per lei il dialetto è la lingua dei nonni. Mio fratello è un professore di lettere e in casa sua non si è mai sentita una parola di dialetto. Eppure, ci sono cose che si possono spiegare perfettamente col dialetto. Lo usava anche Dario Fo. Io lo uso in scena anche perché il mio pubblico non è quello che segue TikTok».

Quando vuole respirare la vecchia Milano, dove va?

«In zona Porta Romana: lì trovo ancora quella Milano. La Milano che dimentica invece la vedo a CityLife, un triste dormitorio di lusso che sembra il set del film Truman Show».

Nel suo show c'è anche parecchia musica.

«Ho accanto a me tre ottimi musicisti come Tiziano Cannas al pianoforte, Roberto Dibitonto alle percussioni e sax e Raffaele Kohler alla tromba: rivisitiamo canzoni celebri di cantautori morti, così non querelano».

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