Anita Likmeta è nata a Durazzo Durrës, porto albanese sull'Adriatico nello stesso anno, il 1985, in cui moriva Enver Hoxha, il leader supremo che per quarant'anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale, governò il Paese come primo segretario del Partito del Lavoro d'Albania. E lì è rimasta mentre il regime comunista costruito da Hoxha si sgretolava...
«Per noi albanesi la caduta del Muro non fu nell'89, ma nel febbraio 1991, quando migliaia di studenti abbatterono la grande statua di Enver Hoxha nella piazza centrale di Tirana, simbolo della tirannide comunista»...
... e ha visto il grande esodo dei suo connazionali.
«Il 7 agosto 1991, la nave mercantile Vlora, di ritorno da Cuba carica di zucchero di canna, durante una tappa nel porto di Durazzo fu assalita da ventimila persone che costrinsero il comandante a salpare per l'Italia. La nave attraccò al porto di Bari la mattina dopo. A bordo c'era anche mia madre coi miei fratelli, mentre io restai in Albania con i nonni»...
... e ha vissuto l'adolescenza nella povertà della campagna albanese.
«... mentre il Paese sprofondava tra crisi economica, anarchia e disordini sociali. E poi nel 1997 arrivo in Italia. Qui ho fatto il liceo Classico, mi sono laureata: ho la cittadinanza italiana dal 2012 e sono imprenditrice in ambito digitale».
E pochi mesi fa Anita Likmeta ha pubblicato il suo primo romanzo, Le favole del comunismo (Marsilio) che altro non è - ed è bellissima - la storia di una bambina cresciuta dai nonni nell'Albania degli anni '80 e '90, che vede la mamma partire per l'Italia e ne aspetta il ritorno per fuggire con lei, che vive nella povertà in un paesino dell'entroterra, che deve stare attenta a non usare troppo il suo unico paio di scarpe, che deve andare con l'asino e le taniche di plastica a raccogliere l'acqua potabile in una chiusa di cemento, che vive in un Paese dove la Sigurimi, la polizia segreta comunista, fa il bello e cattivo tempo e Enver Hoxha fa costruire quasi 800mila bunker. E dove l'Italia - dall'altra parte dell'Adriatico - è vista come la loro «America».
Ogni capitolo del romanzo è introdotto da una breve favola, ma mai a lieto fine.
«Sono favole atroci, ma in realtà sono storie vere accadute negli anni del comunismo. La ragazzina con la coda di cavallo esiste davvero, oggi è una anziana signora: da piccola a scuola aveva attacchi di epilessia e così le fecero la lobotomia, ovviamente per il suo bene... Così come il signor Thair, cittadino esemplare, che litigò per un albero di mele con il suo vicino, che però era il capo distrettuale della Sigurimi, e così gli furono espropriate tutte le terre... Sono storie che la bambina Ariela racconta in forma di favole per anestetizzare il suo dolore, per sopravvivere agli orrori. I bambini fanno così: inventano mondi in cui, anche se attorno c'è solo povertà e tristezza, loro possono trovare un angolo di speranza dove rifugiarsi».
Il Partito vi diceva che il Paese delle Aquile era il più felice dei Paesi, e che fuori c'era l'Occidente dei demoni...
«E invece era un Paese in cui non c'era la democrazia, in cui chi viveva appena fuori dalla Capitale e lontano dal sistema di potere del Partito non aveva acqua potabile, aveva i bagni alla turca, non aveva speranze di miglioramento sociale, mancavano risorse e mancavano diritti, non c'era possibilità di decidere il proprio futuro e in nome di un'economia pianificata stalinista tutto era deciso sopra di te: quanto grano potevi coltivare, quanto riso, quanto pane poteva avere la tua famiglia...».
Tempo fa ho letto un sondaggio secondo cui il 40% degli albanesi ancora oggi dà un giudizio positivo sul regime di Enver Hoxha.
«Anche in Italia molti sono pronti a difendere Mussolini... Ma la cosa importante è un'altra: è che si deve condannare il comunismo come un tragico errore storico tanto quanto si condanna il fascismo. Il comunismo e il fascismo sono le due facce della stessa moneta. Ed è quello che provo a dire col mio romanzo. In Italia però si fa fatica a capirlo perché qui non c'è mai stato un vero comunismo. Il vostro era un comunismo immaginario. Avreste dovuto vedere cos'era l'Albania di quegli anni».
Nel romanzo a un certo punto lo zio Petrit dice che «Non esiste democrazia senza un popolo democratico».
«È così. Vale per tutti, sia per chi inneggia al fascismo sia per chi inneggia al comunismo. Significa che la democrazia te la devi costruire»,
Quando ha cominciato a lavorare al romanzo?
«Più di 17 anni fa, in realtà. Lo scrivevo, poi lo lasciavo lì, poi lo riprendevo. È una storia che mi pesava tantissimo raccontare, che mi perseguitava. Volevo raccontare una determinata storia, ma anche in una certa forma; e per farlo dovevo acquisire bene la lingua italiana. Mi serviva tempo per impossessarmi della tecnica giusta, e così ho dovuto studiare a lungo. Ecco perché esce solo oggi».
Ha trovato subito l'editore?
«Prima di Marsilio lo avevo proposto solo a un altro editore, al quale però non piaceva il titolo... Le favole del comunismo. Capisce che in Italia...».
La piccola Ariela, quando finalmente la madre riesce a portarla in Italia, rimane meravigliata per quante luci ci sono negli autogrill e perché nelle toilette c'è tutta l'acqua corrente che vuole... E lei, Anita, di cosa si stupì?
«Del fatto che nelle città le strade di sera fossero illuminate e che ci fosse acqua ovunque. Ma che l'Albania e l'Italia fossero due mondi lontanissimi lo capii quando ho aperto il primo libro. Qui quelli per ragazzi erano colorati, eleganti, coi disegni. Da noi a scuola si studiava il libro Quali scopi si prefigge il partito albanese dei lavoratori».
Cosa pensa del premier
albanese Edi Rama?«È difficile guidare un Paese in una fase così delicata del suo percorso. La democrazia è ancora molto giovane e fragile. Ma lui è molto coraggioso. Non vedo altri che possano guidare l'Albania oggi».
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