«A CityLife ho realizzato un sogno»

Il «niet» incassato con il Comune di Milano sulla realizzazione del suo museo d'arte contemporanea è ormai acqua passata. Daniel Libeskind, l'archistar newyorkese protagonista del grande progetto CityLife che sta cambiando il volto dell'ex fiera milanese, non ha perso il buonumore ma guarda avanti. Anche perché lo zoccolo duro del progetto condiviso con i colleghi globali Zaha Hadid e Arata Isozaki - il complesso di residenze e le tre torri che svetteranno sul nuovo quartiere - è più che mai d'attualità dopo l'accelerata data nuovo vertice di CityLife. La parola d'ordine, dopo le polemiche sui buchi e i ritardi del cantiere, è consegnare chiavi in mano quanto prima (entro marzo si promette) gli otto edifici progettati dall'architetto di «Ground Zero», e poi via via tutti gli altri.
Certo, architetto, il museo sarebbe stata la ciliegina sulla torta e avrebbe fatto buona compagnia alle altre sue celebri creature, come il Museo Ebraico di Berlino o l'Imperial War Museum di Manchester...
«Pazienza, nella mia carriera ho realizzato tante opere, ma questo era un caso un po' diverso perché il museo è stato ideato come tassello di un progetto che considero un organismo vivente e che comprende un quartiere residenziale dove l'ambiente abitativo si compenetra con l'ambiente, il verde e l'acqua».
Niente museo ma una torre e otto palazzine firmate Libeskind. Che effetto sarà abitare negli appartamenti dell'archistar?
«Non vi aspettate niente di scenografico, perché il mio obbiettivo è offrire ai milanesi i miei concetti di un'architettura che non deve esprimere un esercizio formale di scultura ma una contemporanea visione di abitabilità in cui spazio, luce, tecnologia e skyline si integrino in modo armonico e funzionale».
Torri e grattacieli non sono un concetto un po' anacronistico per una società occidentale in piena recessione e che oggi vede soccombere soprattutto il settore immobiliare?
«Non in questo caso poiché costruire torri a ridosso della city milanese per me non ha nulla a che vedere con manie di grandezza, alla stregua dei grattacieli di Dubai per intenderci, ma al contrario vuole offrire un volano alla comunità, concentrando in centro il lavoro, la vita e un'architettura sostenibile».
Già, sostenibilità, zero emissioni, termovalorizzazione: concetti cari agli architetti contemporanei. Rispetto a dieci anni fa, quando è nata Citylife, ha dovuto fare molte modifiche in corso d'opera?
«Necessariamente sì, perché la tecnologia è andata avanti e anche il mercato immobiliare è cambiato, dunque abbiamo dovuto adattare il progetto, che tuttavia mantiene salda la propria identità e i propri simboli. Costruire a Milano è molto diverso che costruire a Berlino e io ho voluto rispettare la mia idea della città nelle proporzioni, nei colori e nel rapporto con la luce, che qui risente molto degli sbalzi stagionali».
Da CityLife all'EB Tower e i Magazzini generali di Brescia al Palazzo dell'Edilizia di Alessandria. Ormai la metà dei suoi progetti sono nel Belpaese; gli italiani si sono innamorati di lei o lei dell'Italia?
«Io ho sempre adorato l'Italia e soprattutto Milano dove mi sono trasferito nel 1986 fondando un laboratorio didattico sperimentale no-profit, la Architecture Intermundium. I miei figli hanno fatto le scuole qui e hanno imparato a parlare prima l'italiano dell'inglese. Mi piace lavorare qui perchè respiro creatività e dinamismo».
Rispetto a Berlino, New York o Tel Aviv ha anche sperimentato l'eccesso di politica, di burocrazia e di passato storico-artistico....
«Sì ma ogni Paese, nessuno escluso, ha i suoi problemi e i suoi difetti. L'importante è sapersi adattare e progettare consapevolmente in linea con l'identità di un luogo».
Dagli anni Ottanta ad oggi, l'urbanistica e l'architettura di Milano hanno subito profonde trasformazioni. In meglio o in peggio secondo lei?
«In meglio senza dubbio. Oggi, rispetto a quando sono arrivato con la mia famiglia, la città è più policentrica e più funzionale, sono sorti quartieri moderni e anche la viabilità è migliorata. In quanto a urbanistica e servizi Milano non ha nulla da invidiare alle grandi metropoli europee come Berlino o Parigi e anzi può vantare delle specificità uniche».
Troppo buono. Poi abbiamo un debole per gli architetti stranieri come lei, la Hadid, Isozaki, Tadao Ando ecc., che consideriamo dei messia per i grandi progetti.

A parte il senatore Piano non ne abbiamo di validi?
«In Italia ci sono ottimi architetti, ma il progresso non può ancorarsi ai nazionalismi. Ormai viviamo in un mondo senza confini ma che parla la stessa lingua: lo vediamo in tutti i campi, nell'arte, nella musica e nella scienza. L'architettura non fa eccezione».

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