Matteo Mangiagalli, psicologo, lei coordina il lavoro di assistenza psicologica organizzato al confine fra Polonia e Ucraina da «Soleterre», la onlus lombarda che ha portato in Italia i bimbi ucraini malati oncologici. Che lavoro state facendo?
«Stiamo assistendo i medici che lavorano nei centri rifugiati, e organizzando anche un supporto on line, stiamo creando una rete di psicologi contattabili da chiunque».
Qualcuno potrebbe pensare che un supporto psicologico sia «un lusso», per chi non ha più niente.
«Invece no, è essenziale. Intanto, per i medici, esiste il rischio burnout, e ogni sanitario perso è un medico in meno che può curare, un po' come col Covid. Il supporto ai bambini aiuta ad affrontare e prevenire conseguenze di lungo periodo che sono non meno gravi dei traumi fisici. No, non è un lusso, anzi è la base. Poi, queste persone arrivano da situazioni molto precarie ma a nessuno di loro manca ciò che corrisponde ai bisogni primari. La risposta europea ha dato la possibilità di soddisfare queste esigenze, almeno per chi ha lasciato il Paese. È tutto il resto che manca, una prospettiva futura».
Quindi lavorate con i medici, gli adulti e anche con i bambini malati che vengono portati in Italia per essere curati.
«Sì, io li ho incontrati in Polonia due settimane fa, quando è stato attivato il ponte-aereo. L'assistenza ai bambini, una volta arrivati, rientra nel progetto dell'oncoematologia pediatrica. E domenica ripartirò».
Quali sono le problematiche che avete riscontrato in generale?
«Le condizioni sono molto diverse a seconda delle zone di provenienza. Le difficoltà sono in ogni caso legate al trauma della fuga e della separazione con un pezzo di famiglia: al 95% qui sono donne e bambini che lasciano lì mariti, padri e grandi preoccupazioni. Poi, chi arriva da zone bombardate ha il trauma di aver perso casa e sui bambini c'è una forte componente traumatica legata al mutismo selettivo, ci sono bimbi che hanno smesso di parlare. Positiva è stata l'accoglienza polacca, molto calorosa e tutto sommato ben organizzata, per quanto possibile».
Le famiglie e i piccoli malati mostrano una grande forza.
«Una possibile lettura è che una guerra la combattevano già, contro il cancro, hanno un attaccamento alla vita superiore alla media. Forza e capacità di reagire sono più strutturate partendo dalla condizione preesistente. Erano già più abituati a combattere una battaglia, si potrebbe dire. Certo due è più complesso. Tutta la parte di supporto e accoglienza sanitaria può aiutare».
La cura aiuta a elaborare?
«Sì. Lascio la mia casa ma vengo a curarmi, almeno altrettanto bene. Questo aiuta a dare un senso rispetto a chi scappa senza sapere dove».
La lingua è una barriera.
«Sì è un limite, ma una percentuale abbastanza alta di queste persone ha delle competenze di base di inglese, e abbiamo la fortuna di avere volontari e mediatori ucraini. La lingua è una risorsa indispensabile. Inoltre in Italia la comunità ucraina è molto consistente. Una delle prime richieste è di avere cibo ucraino. Sembra banale, ma fa sentire a casa».
Molti stanno accogliendo. Qual è il modo giusto per farlo?
«Non c'è un modo giusto, ma tante posizioni diverse. Sicuramente occorre mettersi in una posizione di ascolto e accoglienza, togliendo i pregiudizi dalla testa, un approccio che attivi risorse relazionali concrete che possano consentire di ripartire, senza pena o pietismo. Poi molto dipende dagli scenari, la loro speranza è sempre tornare a casa».
I bambini affrontano meglio la cosa o non è detto?
«Relazionalmente fanno meno fatica, sono più flessibili, meno strutturati degli adulti. Ma gli adulti proprio per questo possono reggere. Non c'è una regola.
In un bambino certe ferite non si sa dove possano aprirsi col tempo. Certo, basta che ci sia una palla al parco per giocare, ed è una risorsa fantastica, ma nel lungo periodo non è cosi scontato che non patisca di più».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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