Una volta alle periferie pensavano il Partito Comunista e il Partito socialista che vi organizzavano convegni, mostre, dibattiti e spettacoli. Erano gli anni Settanta, quelli dei movimenti sessantottini che contestavano nelle varie città e avevano trovato terreno fertile a Milano, dove erano stati presi di mira persino Il Piccolo Teatro, Strehler e Paolo Grassi. Il quale, avendo capito lo spirito della contestazione, si inventò il decentramento e i vari Teatri quartieri: quelli, per esempio, del Gallaratese e di Piazzale Cuoco. In quella occasione, nacquero i teatri di via Manusardi, via Gulli, via Pier Lombardo, via Dini e via Menotti considerati, allora, teatri periferici.
C'è da dire che, a quel tempo, il decentramento era diventato una necessità e coinvolgeva tutte le unità di base che chiedevano nuovi assetti culturali capaci di adeguarsi al tessuto della città che stava cambiando, sotto la spinta di quella contestazione di cui Dario Fo era il vessillo, oltre che portavoce di un teatro, non più a gestione manageriale, (tale era diventato anche quello degli Stabili) e che con il suo «Mistero buffo» recitò in tutte le periferie milanesi, senza tralasciarne alcuna. Allora non c'era stato alcun ministero che avesse stanziato ben 22,02 milioni, come ha fatto in questi mesi quello del ministro Dario Franceschini credendo o illudendosi di recuperare quelle periferie che, sentendosi abbandonate, da anni hanno scelto di votare a destra perché non si sentono più rappresentate da un partito in mano a democratici cristiani come Prodi, Renzi, Gentiloni, Letta. Politici che hanno perso ogni contatto con le periferie, preferendo di posizionarsi nei centri delle città.
Negli anni Settanta, grazie al decentramento, potevano vedersi, sempre nelle periferie, spettacoli di Brecht come «Un uomo è un uomo», di Svevo come «La Rigenerazione» con Buazzelli, di Goldoni come «Arlecchino servitore di due padroni», «L'Age d'Or» col Teatro Du Soleil e la regia di Ariane Mnouschine o ascoltare Milly con la regia di Crivelli. e poi il Quartetto Cetra, i Pomeriggi musicali, tanti spettacoli di qualità. Allora, le strade di Milano erano tappezzate di manifesti che invitavano a gustarsi le delizie dei teatri quartieri, dove abbondavano anche le famose Assemblee.
Col nuovo decreto cosa viene offerto alle periferie, sempre più popolate e sempre più bisognose di strutture adeguate, come quelle di Niguarda, Giambellino-Lorenteggio, Baggio, Calvairate nei programmi stesi dal Piccolo e dal Franco Parenti? Più che spettacoli importanti, delle Performer ben teorizzate, con l'utilizzo di terminologie, a dire il vero alquanto usurate, perché hanno il sapore di una vecchia sinistra che non c'è più, come «immersione» nel sociale, scambi con le varie comunità, drammaturgie multiformi e polifoniche che non vogliono dire nulla, fiabe multimediali. Addirittura c'è chi propone spettacoli senza spiegare che cosa abbiano in comune i rapper con gli anziani e c'è chi suggerisce «linguaggi endemici rispetto al tessuto sociale». Cose dell'altro mondo. Sono programmazioni che, piuttosto che alle periferie, interessano ai teatri produttori, ai quali va in tasca la media di un milione di euro, di cui una piccola parte finisce a giovani compagnie, alcune delle quali vanno perdonate, perché non sanno quello che fanno. Eppure il ministro Franceschini sostiene che si tratti di «un finanziamento innovativo che consentirà di realizzare spettacoli per periferie che vanno riconnesse al tessuto urbano» e che «le risorse dovranno essere usate per sostenere attività di spettacolo dal vivo sulla base di progetti selezionati tramite un bando pubblico».
Chi li abbia scelti non si sa, quello che sappiamo è che i cittadini
e i lavoratori delle periferie non hanno bene accolto il «finto» teatro e che, dicono, sono stanchi delle saccenterie della sinistra che delega ad altri quel che lei non sa fare. Continuando, pertanto, a votare a Destra.
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