Da oltre sessant'anni in scena, Umberto Orsini non ha mai nascosto la sua predilezione per due testi che ha interpretato, più volte, nel pieno della maturità artistica: Copenaghen di Frayn e Il nipote di Wittgenstein, di Bernhard che sta recitando, al Piccolo Teatro Grassi, fino al 22 Dicembre, sempre sold out, proprio come il titolo del suo libro appena uscito da Laterza, un testo, per il quale, confessa di essere se stesso che parla, con le parole dell'autore, piuttosto che essere il personaggio. Del resto, quando recita, egli non si lascia trasportare dalle emozioni, osserva un certo distacco, più razionale che epico. Gli chiedo come siano passati i suoi sessant'anni in scena.
«Ogni stagione della mia vita è stata segnata da qualche spettacolo. Quando arrivo all'ultima replica, non provo quasi mai rimpianti, perché sono già completamente immerso, col pensiero, nello spettacolo successivo».
È stato sempre così?
«Certamente no. Gli inizi della mia carriera li ho considerati alquanto fortunati, avendo subito avuto a che fare con maestri come De Lullo che mi diresse, nel debutto, con Anna Frank, accanto alla Guarnieri, o come Visconti, Patroni Griffi, Castri, Zeffirelli, Ronconi».
Li considerava delle reti di protezione?
«È vero, erano una vera e propria rete di protezione per come utilizzavano le prove che si trasformavano, ben presto, in un segmento fondamentale per la creatività dell'attore. Grazie a questa rete, tutte le paure si attenuavano e si trasformavano in coraggio»
Nel suo libro «Sold out», edito da Laterza, lei racconta che registrava Ronconi durante le prove, in che modo?
«Col registratore di una volta. Le sue parole, durante le prime letture, quando dava le indicazioni su come recitare il testo, erano dei pensieri che ti davano l'impressione di vedere, in profondità, il personaggio che avresti dovuto interpretare».
Quando è venuto a Milano, dalla sua Novara?
«Mi recai, nel 1950 al Piccolo Teatro per vedere lo spettacolo La morte di Danton, con la regia di Strehler, spettacolo meraviglioso, recentemente portato in scena da Mario Martone».
Quando ha conosciuto Paolo Grassi?
«Lo conobbi in un Circolo culturale, a Novara, dove era venuto per una conferenza. Alla fine del dibattito, doveva ritornare a Milano con una nebbia fittissima, tanto che mi offrii di fargli compagnia. Parlava sempre lui. In macchina si era aggiunta una mia professoressa che, nella strada del ritorno, per paura della nebbia, si abbracciò a me, superando certi limiti che la semplice paura non poteva giustificare».
Lei nella sua vita ha avuto tante donne, chi ha amato di più?
«Direi mia madre che non ha mai smesso di lavorare per la famiglia fino ad adattarsi a lavori alquanto umili, poiché, nel dopoguerra, si era molto poveri. Io vivevo con l'aiuto di mia madre e di mio fratello che mi dette 20mila lire per potermi scrivere all'Accademia. Poi ho amato Rossella Falk che era sposata con un industriale e che aveva un amante ufficiale: Renato Salvatori. Io ero il terzo incomodo, molto geloso. Nel libro racconto come andò a finire. Fu importante la relazione con Ellen Kessler, mentre Alice era fidanzata con Enrico Maria Salerno. In verità, sono sempre stato un precario nei rapporti sentimentali, nel senso che non ho mai convissuto a lungo con le mie fidanzate. Con Ellen, la scintilla scoppiò a Milano, quando girava, con la sorella, un Carosello per le calze Omsa».
C'è stato un insuccesso clamoroso nel corso della sua carriera?
«Avvenne proprio a Milano, sul palcoscenico del Teatro Manzoni, dove portammo in scena un testo comico di Ayckbourn: Norman ai tuoi ginocchi; registrammo dei forni, ovvero dei teatri vuoti, l'opposto di sold out».
Oggi in teatro lei è un capocomico, con una propria Compagnia.
«Avere una Compagnia significa tante cose. A parte l'aspetto finanziario, ti permette di trasmettere, ad altri, le tue competenze e di non lasciare cadere, nel vuoto, le tue conoscenze.
Posso lavorare con giovani attori e registi, come è accaduto col Costruttore Solness di Ibsen, per il quale ho scelto il giovane, di talento, Alessandro Serra. Ho sempre cercato il rinnovamento attraverso gli altri, perché sentivo, in agguato,il pericolo di ripetermi».
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