Non so che cosa mi succeda. Sono il traduttore di Walt Whitman, nel mio Manuale di poesia ho scritto a chiare lettere che lAmerica è un continente più intimamente poetico di tante parti della vecchia Europa, ho preso il caffè con Ferlinghetti in un locale di North Beach a San Francisco, un mio libro ha la prefazione di Diane Di Prima, ho in casa i fiori seccati della cerimonia funebre che i poeti della Bay Area fecero per Allen Ginsberg, con cui più volte la mia strada si è incrociata. Dunque dovrei avere le carte in regola per essere considerato un estimatore della poesia doltreoceano.
E invece, davanti ai testi raccolti nella antologia della Nuova poesia americana, ottimamente curata da Luigi Ballerini e Paul Vangelisti, provo una sensazione di lontananza e come di fastidio. Cerco un verso, una strofa, una illuminazione lirica che mi sorprenda, ferisca, rimanga memorabile: e non trovo niente. Cerco lombra di Whitman, quella con cui Pound riprese commercio alla fine, quella che Ginsberg vide apparire sui banchi di un supermercato, ma invano. La poesia americana degli autori prevalentemente della mia generazione, quelli nati dopo la Seconda Guerra Mondiale e che vivono a Los Angeles, rinuncia allentusiasmo vitale, alla mitopoiesi, al lirismo, allepicità.
Cosa rimane, da questa immensa cancellazione? Rimane grosso modo una disposizione minimalista al racconto miscelata a una pratica quasi obbligata dellironia intellettuale. Prendete questi versi di Rae Armantrout e godeteli nella loro formidabile esemplarità: «Siamo io e tre amici./ Siamo in centro e abbiamo appena parcheggiato,/ per fortuna che abbiamo trovato posto». La poesia californiana oggi è tutta in questo esercizio di autoriduzione programmatica. Va bene la vita quotidiana, va bene tagliare sino allosso, alla Carver, e poi? Capisco lingiunzione di John Thomas: «Per prima cosa, fare violenza ai miti». Ma i miti dove sono? Qui sembrano più assenti che violentati. O quando fan capolino, sono miti mediati dalla celluloide piuttosto che dallenergia dellanima. Che nessun poeta di Los Angeles abbia letto James Hillman?
Stuart Z. Perkoff dedica una poesia a Gary Cooper in memoriam, una affabile mascalzonata in cui leroe di Mezzogiorno di fuoco è ridotto a uno «schivamerde» e a un «senza cazzo», in una divertente ma fredda operazione demitizzante. Lirriverenza di questi poeti è innocua e di maniera. Si fermano a Bukowski senza mai fare una gita a Big Sur, dove Henry Miller, gigantesco, osceno e mistico, avrebbe ancora da insegnare tanto a tutti. Sai che irriverenza prendersela come Robert Crosson con lo stile («stile sto cazzo», ma loriginale, più ritmico, ha «class my ass»: classe il mio culo). Che irriverenza constatare come Stuart Z. Perkoff che «nessuno fa più pompini/ a nessuno»: che poi sembra francamente una affermazione un po troppo pessimistica.
Lironia intellettuale è una àncora di salvezza, è una presunzione di superiorità nei confronti del reale, è una macchina efficiente per lautoconservazione. E questa poesia sembra non avere altro obiettivo che autoconservarsi, in comodi freezer. Possibile che non sia chiaro che il lirismo tanto detestato è lunica corrente di energia rivoluzionaria, in grado di alterare gli stati di equilibrio dello spirito? Che senza il lirismo visionario di Hölderlin e Rimbaud la poesia e il mondo non si sarebbero mai rinnovati? È la disposizione al lirismo visionario e al mito fondatore che si scontra con il mondo come è e lo cambia. Qui leggo Guy Bennet, con cui ricordo di aver fatto di notte una sgroppata in auto nei dintorni di Rabat, e lo trovo così più cerebrale di quanto il suo aspetto dicesse: sembra che il suo fine sia la raffinatezza, e certo sono raffinatissime le sue Otto miniature architettoniche, un omaggio a Stravinskij.
E molto letterari, ma almeno carichi di rabbia e di forza, sono i sonetti americani di Wanda Coleman, una autrice afroamericana che, cosa ben rara oltreoceano, trae anche uno spunto dal nostro Foscolo. Di tutte le quattrocento pagine del volume, lunica cosa che mi ha toccato, alla fine.
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