Ha combattuto i terroristi corpo a corpo il 7 ottobre, quando fecero irruzione in duecento nel kibbutz Nir Oz, dove viveva con sua moglie e le due figlie, che oggi hanno 7 e 3 anni. Ora le bambine sono diventate tre ma Sagui Dekel-Chen, israelo-americano che ha compiuto 36 anni in cattività, la sua terza, Sacher, 10 mesi, non l'ha mai conosciuta. Perché è ancora a Gaza, in mano ai terroristi da un anno, rapito da Hamas dopo aver protetto i suoi cari. Nella sua attesa, per i familiari, «ogni giorno è l'inferno in terra». Lo descrive così il padre di Sagui, Jonathan, che spera in una soluzione diplomatica, chiede un accordo per il rilascio degli ostaggi e ci racconta le sue dure giornate.
È passato un anno senza suo figlio. Prevale l'angoscia, la rabbia o la speranza?
«Posso solo dire che ogni giorno è peggiore del precedente. Il tempo per me e per tutti noi parenti degli ostaggi si è fermato il 7 ottobre. Il tempo normale non esiste più e potrà tornare a scorrere solo quando mio figlio tornerà dalle sue bimbe e fra noi».
Mai ricevuto un messaggio o un video in questi dodici mesi?
«Nulla. Questo dipende dal fatto che Hamas, brutalmente, non ha mai consentito alla Croce Rossa o ad altre organizzazioni umanitarie di incontrare i rapiti. L'unica prova di vita di Sagui risale al primo scambio di ostaggi di fine novembre, primi di dicembre, quando alcuni liberati mi hanno riferito di averlo visto molto brevemente».
Suo figlio ha lottato corpo a corpo con gli estremisti di Hamas. Come lo descriverebbe?
«Un padre amorevole, una persona indipendente, creativa, che amava la sua comunità ed era amato nella sua comunità».
La moglie e i figli hanno sentito le urla e Sagui combattere per fermare gli uomini di Hamas. Sono ancora sotto choc?
«Non possono nemmeno cominciare a riprendersi dal trauma. Nessuno di noi può farlo. A Nir Oz hanno ucciso 51 persone su una comunità di 400, hanno preso 79 ostaggi sugli oltre 240 catturati in Israele. I terroristi hanno fatto quello che volevano: rapito, violentato, distrutto e bruciato tutto. Quel kibbutz è ormai un luogo degli incubi, un campo di morte. Finché mio figlio non tornerà, non potremo cominciare a riprenderci. Forse succederà a un certo punto, ma ora appare molto lontano».
Lei fa parte della delegazione dei familiari degli ostaggi che è stata ospitata più volte alla Casa Bianca. Gli Stati Uniti possono essere decisivi? Possono fare di più?
«Tutti i governi possono spingere perché si trovi un accordo. Ma la cosa più difficile è convincere Hamas a un cessate il fuoco, perché senza quello non ci può essere la liberazione degli ostaggi. Molti sembrano ignorare il ruolo di Hamas in questa vicenda, un'organizzazione disposta a sacrificare quante più vite possibili nel nome della jihad, vite non solo israeliane ma anche palestinesi».
Chi ha più responsabilità per il mancato rientro di suo figlio?
«La colpa è di Hamas. È facile criticare il governo israeliano ed è anche legittimo, ma è Hamas che ha invaso, violentato, distrutto e si rifiuta di chiudere un accordo».
Se potesse parlare ai terroristi, cosa direbbe?
«Non ho nulla da dire. Sono mostri disumani non solo per quello che hanno fatto il 7 ottobre, che è intollerabile, ma anche per quello che hanno fatto prima e dopo agli abitanti di Gaza. Dovrebbero cambiare pelle prima che io possa dire loro qualcosa».
Questa guerra è giusta? È l'unica via per sconfiggere il terrorismo?
«È una domanda complicata, la risposta è una questione per gli storici. L'unica cosa che so è che Hamas e il terrorismo vanno affrontati perché quello che è successo in Israele potrebbe succedere ovunque nel mondo.
Se un'organizzazione può svegliarsi, invadere, uccidere migliaia di persone, sequestrare e alla fine sentirsi anche vincente nella sua missione, allora che Dio ci aiuti tutti. Spero che lo capisca chiunque, in Europa e nel mondo, di qualsiasi religione e cultura».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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