Il miraggio del 50,1%: un’era di fallimenti

Roma - Come il grunge, il walkman e «Novantesimo minuto», il referendum è passato di moda alla metà degli anni Novanta. E già allora vivacchiava, nostalgico di tempi più gloriosi. Risalgono al 1995 (11 giugno) le ultime consultazioni abrogative che raggiunsero il quorum: dodici quesiti di ogni tipo, dalla legge elettorale nei comuni agli orari dei negozi, dalle concessioni tv alla privatizzazione della Rai, che suscitarono nell’elettorato un interesse sufficiente a convalidarne l’esito, con partecipazione tra il 57,2 al 58,1 per cento. Fino a quel momento la tradizione referendaria era di tutto rispetto in Italia: dal padre di tutti i referendum abrogativi, quello sul divorzio del 1974 (87,7 per cento di affluenza) fino a tutti gli anni Ottanta i quesiti sottoposti agli italiani ebbero una certa fortuna, anche per merito della storica disciplina italica nel recarsi alle urne, per la verità oggi decisamente appannata. Così i referendum del 1978 (due quesiti: finanziamento pubblico dei partiti e ordine pubblico) raggiunsero l’81,2 per cento dell’affluenza, quelli del 1981 (cinque, tra i quali uno sull’aborto) si tennero in quota al 79,4; quello sulla contingenza, nel 1985, superò ancora i tre quarti dello «share» (77,9). La tendenza al calo di attenzione fu ratificata dai cinque quesiti del 1987, quando come oggi era in ballo il futuro nucleare dell’Italia: malgrado l’importanza del tema non si superò il 65,1 per cento di affluenza.

Il primo vero fallimento referendario si registrò il 3 giugno 1990: gli italiani, forse distratti dall’imminente inizio dei mondiali di calcio casalinghi, per la prima volta fecero mancare il numero legale ai tre quesiti sulla caccia e sull’uso dei pesticidi (la partecipazione al voto ondeggiò dal 42,9 al 43,4 per cento). Nei primi anni Novanta gli ultimi colpi di coda: nel 1991 ebbe un certo successo il referendum che ridusse da tre a una le preferenze sulle schede (62,5 per cento), mentre gli italiani votarono a raffica (77 per cento) nell’aprile 1993 otto quesiti, trascinati da quelli che proponevano l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e l’introduzione del maggioritario uninominale al Senato. Sembrava l’inizio di una nuova stagione referendaria, che metteva a reddito il crollo della Prima Repubblica e la ricerca di nuovi referenti politici; fu invece l’inizio della fine, provocata proprio dall’indiscriminato ricorso a questo strumento: nel 1995 l’ultimo successo, poi i flop del 1997 (sette quesiti tra i quali l’abolizione del sistema progressivo di carriera dei magistrati e dell’ordine dei giornalisti che superarono appena il 30 per cento), il doppio smacco per Mario Segni e per il suo sogno di cancellare il proporzionale alla Camera (quorum sfiorato nel 1999 con il 49,7 per cento, lontanissimo nel 2000 con il 32,4 per cento malgrado l’abbinamento ad altre sei schede), il fallimento del 2003, del 2005 e del 2009 con un totale di nove quesiti naufragati con percentuali ridicole (attorno al 25).

In mezzo l’unico semi-successo del referendum costituzionale del 2006 (per il quale peraltro non è previsto quorum), che proponeva alcune importanti modifiche della Costituzione in senso federale e presidenziale: il 53,6 per cento degli italiani si recò alle urne. Ma per dire no.

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