Il sette giugno del 1913, al Madison Square Garden, nel cuore di New York, si concluse il cosiddetto Paterson Strike Pageant. Qualche mese prima a Paterson, una cittadina del New Jersey, c'era stato uno sciopero in una fabbrica tessile, che aveva poi portato al blocco dell'intero comparto. C'erano stati scontri e arresti, circa 1500 fra scioperanti e simpatizzanti, e due morti, entrambi italiani: un semplice cittadino, Valentino Modestino, colpito da un proiettile sulla soglia di casa, con il figlio piccolo in braccio, e un operaio, Vincenzo Madonna, ucciso da un agente. La maggioranza dei lavoratori era fatta di immigrati europei, italiani appunto, tedeschi, polacchi, irlandesi, ebrei, le forze dell'ordine erano pubbliche, ovvero dello Stato federale, ma anche private, le agenzie tipo Pinkerton, schierate dagli industriali per difendere i loro interessi.
Quel sette di giugno gli scioperanti, circa un migliaio, arrivarono da Paterson in treno, attraversarono le strade di Manhattan, si radunarono in Washington Square e da lì, lungo la Quinta strada arrivarono al palco di Madison Square: la piazza era stata affittata, dietro il pagamento di mille dollari, e trasformata in una sorta di teatro all'aperto con tanto di palchi e sedie e con prezzi che andavano dai venti dollari ai dieci centesimi. Un manifesto disegnato per l'occasione, con un lavoratore in marcia su uno sfondo di fabbriche, informava che il Pageant, ovvero il corteo-spettacolo, sarebbe stato interpretato «dagli stessi scioperanti» ed era il tentativo di mettere in scena lo sciopero di qualche mese prima: la lotta, i lutti, i funerali rielaborati in forma collettiva.
L'idea dell'evento era dovuta a un gruppo di intellettuali che vivevano e lavoravano in quello che era allora il Village di New York, ovvero il Greenwich che da Union Square arrivava a Huston Street e costeggiava l'East Village da una parte e Hudson Park dall'altra. Del resto, secondo quello che sarebbe divenuto il più celebre fra loro, John Reed, l'autore di I dieci giorni che sconvolsero il mondo, il reportage sulla rivoluzione bolscevica del 1917, l'America era il Village, il resto del Paese era puro contorno...
Proprio Reed, che era stato fra gli arrestati a Paterson qualche mese prima, fu il regista di quello sciopero-corteo-spettacolo, di cui impostò la sceneggiatura, gli atti che lo intervallavano con relativi quadri scenici, per un totale di otto episodi. C'erano discorsi e musiche, lanci di garofani, scene di picchettaggio e persino cariche della polizia... In una piazza illuminata di rosso, con un fondale dipinto di 50 metri, dalle nove di sera la performance andò avanti senza interruzioni per qualche ora. Il giorno dopo il New York Times definì l'evento come il cast più spettacolare mai visto in una produzione teatrale e il New York Tribune parlò di «una sorprendente qualità ultra-moderna, se non Futuristica».
Tutto bene, dunque? Artisticamente sì, ma dal punto di vista delle lotte operaie fu un fiasco: il tetto delle otto ore di lavoro come massimo giornaliero non venne accettato, tanto meno l'aumento salariale. L'anno dopo Reed, che lo scrittore Upton Sinclair avrebbe soprannominato «il playboy delle rivoluzioni», sarebbe andato in Messico per raccontarne una, quella di Pancho Villa e di Emiliano Zapata, che non aveva bisogno di registi e avveniva in presa diretta giorno dopo giorno.
Il Paterson Strike Pageant è un po' al centro di The Village Generation (ombre corte, pagg. 236, euro 20), il bel saggio che Barbara Lanati, americanista di lungo corso, dedica, come recita il sottotitolo a Arte e dissenso nel Modernismo americano. Greenwich Village, Provincetown e Taos, per indicare tutti i luoghi in cui quel Modernismo mosse i primi passi. Naturalmente, ogni modernità che si rispetti nasce per contrapposizione, ma anche per filiazione con ciò che l'ha preceduta. Nel caso di quella americana, il debito con quell'Europa di cui un secolo e mezzo prima si era celebrato sanguinosamente il distacco coloniale, è all'inizio del Novecento fortissimo perché è lì che nascono le avanguardie, si attua la rivoluzione del romanzo e più in generale della prosa, ed è lì che militanti e avventurieri, di un'idea e/o di una ideologia, finiscono a volte per darsi la mano, a volte per combattersi. Come scrive Barbara Lanati, «iniziò tutto nelle grandi capitali europee, Londra, Parigi, Berlino e Zurigo, lì dove era nata l'urgenza di mettere in discussione l'ordine composto e composito dell'etica vittoriana e della economia capitalista, nei cui confronti il circuito culturale e della sperimentazione avanzava guerrigliero».
Di quella duplice roccaforte, il modernismo americano rimase però più a lungo prigioniero rispetto a ciò che avveniva in Europa, non solo perché il Comstock Act del 1873, contro i libri considerati osceni, per dirla in breve, rimase in auge sino al secondo dopoguerra e ci vorrà il celebre processo intorno al Tropico del Cancro di Henry Miller per venirne a capo, ma anche perché l'economia capitalista era qualcosa di talmente connesso con l'«American way of life» che la sua messa in discussione risultava impensabile, talmente essa era connessa con il mercato e con il consumo, con una sorta di etica del successo che non contemplava nessuna nobiltà della sconfitta.
È anche questa primazia del capitalismo a dare a quel modernismo americano del primo Novecento un carattere fondamentalmente anarchico, nel senso di un individualismo che non ce la fa mai a entrare in sintonia con i grandi mutamenti sociali e politici che invece premono dall'altra parte dell'oceano. Hai un bel fondare, nel 1911, riviste che si chiamano The Masses e più tardi The New Masses, quando non hai masses su cui appoggiarti, ovvero partiti e movimenti chiamati a rappresentarle. Laddove in Europa, anche tragicamente, visti i risultati, esiste una sorta di osmosi fra avanguardie intellettuali e nuove istanze e/o parole d'ordine politico-ideologiche, poco o nulla del genere avviene negli Stati Uniti dove, scrive Lanati, «la lotta della nuova generazione di scrittori artisti e intellettuali» che dal Village si trasferisce a Provincetown, sulle spiagge dell'Atlantico, e poi a Taos, nel New Mexico, è condotta «con piccole armi, ritagliando spazi di solitarie comunità, le cui idee circolavano, spesso attraverso l'auto-finanziamento, grazie a case editrici indipendenti, riviste e gallerie, piccoli teatri o atelier, ricavati nelle abitazioni o in luoghi dismessi. Il pubblico, lo stesso gruppo, una cerchia di amici, compagni, collaboratori, intellettuali militanti: una sorta di famiglia allargata».
Si inserisce qui l'altra aporia legata a quella primazia capitalista prima riportata e che ha nel mercato la sua unica e vera ragion d'essere. «Fino a che punto l'artista avrebbe avuto la forza di separare l'arte dalla politica, dalla società, da quella middle-class borghese cui l'artista era ostile, ma di cui aveva bisogno in quanto committente privilegiato?». Lanati delinea tre opzioni, non a caso tutte e tre di derivazione europea: la prima, simboleggiata da Cézanne, ignorava quel dilemma; la seconda, con gli impressionisti, lo risolveva in modo compromissorio; la terza, Van Gogh, le andava contro, pagandone il prezzo. Ma la vera risposta, quella che poi di fatto sancirà il Novecento come «il secolo americano», è quella che nella seconda metà dello stesso coinciderà con l'entrata in scena di Andy Warhol, che di fatto annulla «la dicotomia tra arte per élite e arte per la massa» perché annulla l'idea stessa dell'artista in quanto tale, trasformandolo in uomo comune, la cui unicità consiste nell'essere come tutti, perfetto esemplare della società di massa.
Per noi conoscitori superficiali di arte e cultura americana, il Greenwich Village è associato a quanto nel secondo dopoguerra venne definito «beat generation», con tutto il suo corollario di luoghi, studios, gallerie, librerie, locali, reading e sit-in dove la modernità americana uscita vittoriosa dopo la Seconda guerra mondiale ridisegnava i canoni intellettuali e non solo di quella che poteva definirsi una controcultura completamente sganciata da ogni forma di legame e/o di sudditanza con quanto il Vecchio continente aveva prodotto fino agli anni Trenta del Novecento. Era un perfezionamento e insieme una negazione di ciò che era stata la «lost generation», la generazione perduta degli anni fra le due guerre, da Pound a Hemingway passando per Henry Miller, che per trovare sé stessa dall'America se n'era dovuta andare, in quanto la considerava nel migliore dei casi arretrata, altrimenti mortifera, «l'incubo con l'aria condizionata», come la definirà appunto Miller.
Al contrario, come ci racconta molto bene Barbara Lanati, c'è stato un Village prima del Greenwich Village, negli stessi luoghi e con lo stesso nome, uno «stato mentale» e insieme uno spazio geografico, ma «senza confini», a detta di chi lo frequentò, e che è alla base di tutto ciò che avvenne dopo. Ne fecero parte fotografi come Alfred Stieglitz e Georgia O' Keeffe, drammaturghi come Eugene O'Neill, e la sua fine coincise con l'entrata degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale.
Il 23 gennaio del 1917, i suoi giovani ribelli celebrarono la nascita della «Free and Independent Republic of Greenwich Village», in opposizione, scrive Lanati, «alla New York dorata, capitalista e guerrafondaia».Ma intanto il Congresso degli Stati Uniti aveva stabilito che dissentire dalla guerra era un reato e alla neonata repubblica non restò che chiudere i battenti...
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