Afghanistan, ucciso un ex collaboratore dell'esercito. Interpreti (ancora) abbandonati

Sono passati otto mesi dall'esfiltrazione degli interpreti afghani dall'aeroporto di Kabul. Ma tanti collaboratori aspettano ancora un aiuto. Che tarda ad arrivare

Afghanistan, ucciso un ex collaboratore dell'esercito. Interpreti (ancora) abbandonati

Aveva il volto pulito, Hassan Qanoni. Vestiva all'occidentale, i capelli sempre in ordine. E amava scherzare, anche quando il mondo sembrava crollargli addosso. Per tanti anni ha collaborato con le nostre forze armate in Afghanistan e lo scorso agosto, nel tumulto generale, aveva cercato di raggiungere l'aeroporto di Kabul per raggiungere il nostro Paese, senza però riuscirci. Ora non c'è più. È stato ucciso il 28 marzo scorso nel quarto distretto di Herat. Non si sa chi l'abbia ucciso. Qualcuno lo ha chiamato lunedì sera, invitandolo "in un certo posto" per consegnargli dei soldi. Due ore dopo, il telefono di Hassan risultava staccato. Nessuno della sua famiglia ha avuto sue notizie per 48 ore, fino a quando non è stato ritrovato il suo corpo, completamente incenerito. Aveva 30 anni e si era sposato da poco.

Scrive l'Independent: "Dopo il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan, Hassan e la sua famiglia si sono recati per un po' di tempo in Iran, chiedendo un visto umanitario italiano. Seyed Baqer Sajedi, il fratello maggiore di Hassan, è stato traduttore della Nato in Afghanistan per 12 anni e pensava che, grazie al coinvolgimento di Hassan nelle forze di polizia afghane e al suo lavoro con le forze della Nato, avrebbero potuto ottenere un visto umanitario italiano". Così però non è stato. "Dopo la delusione per non aver ricevuto il visto, Qanoni è tornato a Herat".

Non si sa chi l'abbia ucciso né perché. C'è chi punta il dito contro i talebani e chi, invece, ritiene si sia trattato di questioni personali. Ma il caso di Hassan Qanoni serve a ricordare che il nostro Paese ha ancora un impegno con i collaboratori afghani che, dal 2001 in poi, hanno lavorato con il nostro contingente. Tra questi c'è pure Sayed Sadat, arrivato in questi giorni a Teheran ma lasciato, ancora una volta, a piedi dalle nostre autorità: "Il ministero della Difesa mi aveva detto di informarlo non appena arrivato in Pakistan. Ho chiamato e scritto tante volte ma non ho mai ricevuto risposte. Sono andato anche a chiedere aiuto alla vostra ambasciata, ma mi hanno detto che non possono fare nulla, nonostante abbiamo tutti i documenti in regola. Non abbiamo soldi e non sappiamo più cosa fare".

La famiglia di Sayed Sadat di fronte all'ambasciata italiana a Teheran

Sayed ha deciso così di dormire davanti alla nostra ambasciata. Ci invia un video in cui si vedono i talebani frustare alcune persone che hanno mangiato durante il ramadan. "Penso che l'Italia non ci aiuterà più", aggiunge sconsolato. "Di giorno e di notte ho studiato italiano per lavorare con voi" - scrive - "ho lavorato gomito a gomito con i vostri soldati, ma credo sia stato tutto inutile perché nessuno mi aiuta. Non ho più speranze".

In questi mesi il Covi - il Comando operativo di vertice interforze - si è dato un gran da fare per mantenere i contatti con i collaboratori rimasti in Afghanistan, fornendo loro le informazioni necessarie per spostarsi in Iran e Pakistan. Un lavoro prezioso ed efficace che, però, pare infrangersi a Roma.

Le procedure per far arrivare gli afghani, infatti, sono lunghe e complesse: i nominativi del Covi vengono girati al ministero dell'Interno per una fase di controllo (interminabile) per poi passare al ministero della Difesa, che li inserisce nelle proprie liste, e infine al Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale che riceve le liste e dà le istruzioni per il rilascio del visto. Una burocrazia infinita che abbandona gli afghani al proprio destino. Ancora una volta.

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