Menzogne di Stato. È questa la cifra comune che unisce le notizie in arrivo oggi dalla Cina rossa di Xi Jinping, che si tratti della vicenda squallida delle violenze subite dalla campionessa di tennis Peng Shuai, delle elezioni addomesticate per il rinnovo del Parlamento di Hong Kong o delle polemiche con l'Occidente sulla crisi taiwanese. La propaganda di Pechino è sempre al lavoro, nella classica tradizione leninista, per fornire al mondo versioni falsificate della realtà a uso e consumo della conservazione del potere assoluto del Partito. E ieri ha dato o ha ritenuto di dare grande prova di sé.
Cominciamo dalla vicenda Peng. Una giornalista del Global Times, l'aggressivo tabloid ultranazionalista legato a doppio filo con il giornale ufficiale del Pc cinese Quotidiano del Popolo, ha pubblicato un brevissimo video e una foto della tennista, sostenendo di averli ricevuti da «un amico»: vi si riconosce la 35enne Peng Shuai in compagnia dell'ex stella cinese del basket Nba Yao Ming e di altri due noti sportivi cinesi. L'ambientazione è a Shanghai, nel corso di un evento tenuto sabato scorso per promuovere lo sci da fondo in vista delle imminenti Olimpiadi invernali di Pechino, e tutto deve servire a mostrare un'apparente normalità nella vita della campionessa che era a lungo scomparsa dopo che in novembre aveva sconvolto i vertici comunisti del suo Paese diffondendo un messaggio online in cui accusava l'ex vicepresidente cinese Zhang Gaoli di averla costretta a rapporti sessuali. Non è tutto. Un giornale cinese di Singapore ha diffuso un altro video, ripreso nel corso dello stesso evento a Shanghai, nel quale Peng precisa di ritirare le sue accuse di aggressione sessuale parlando di generici «fraintendimenti», non nomina mai Zhang e insiste essersi trattato di «affari privati». Nonostante questi sforzi della propaganda di Stato, che fanno immaginare le pressioni cui la tennista cinese è sottoposta, l'Associazione mondiale del tennis femminile ribadisce la sua richiesta di un'indagine «equa, completa, trasparente e senza censura» sulla vicenda.
Passiamo a Hong Kong. Dopo che meno del 30 per cento degli aventi diritto si sono presentati domenica scorsa a votare i candidati «patrioti» selezionati da Pechino per il rinnovo di un Parlamento ora addomesticato ai suoi voleri, il Partito è insoddisfatto. Lo dimostra l'uscita rabbiosa del portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, che attribuisce la scarsissima affluenza a «elementi anticinesi decisi a distruggere Hong Kong e all'interferenza di forze esterne». Altra musica ma sempre spiccatamente ipocrita ha cercato di suonare la governatrice dell'ex colonia britannica: «Non possiamo fare copia-incolla con il sistema o le regole cosiddette democratiche dell'Occidente ha detto Carrie Lam - Hong Kong è tornata sulla strada giusta, quella di Due Paesi e Due Sistemi, dopo una bella campagna elettorale»: svoltasi con gli attivisti dell'opposizione in carcere o in esilio all'estero. Secondo l'agenzia ufficiale cinese Xinhua «il voto dimostra la vera volontà del popolo della città cinese». Pechino ha anche diffuso per l'occasione un «libro bianco» (e chissà perché i libri pieni di bugie sono sempre bianchi...) dedicato «alla sincera buona volontà del governo centrale sullo sviluppo della democrazia a Hong Kong».
Infine, Taiwan. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha definito l'isola nazionalista alleata di fatto degli Stati Uniti che pure formalmente non la riconoscono «un vagabondo che tornerà a casa».
«La Cina dovrà essere unificata e sarà unificata ha minacciato Wang -: non consentiremo agli Usa di usare Taiwan come una pedina per controllarci». Sul fatto che i taiwanesi non abbiano la minima intenzione di lasciarsi unificare dal regime di Pechino, come sempre, non una parola.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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