Ásotthalom, Ungheria - Dopo l’incontro del 19 maggio scorso, promosso dall’Ue a Strasburgo per mediare un accordo tra il premier conservatore dell’Ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM), Nikola Gruevski, leader del partito di governo Vmro/Dpmne, e il capo dell'opposizione socialdemocratica (Sdsm) Zoran Zaev, conclusosi con un nulla di fatto, lunedì è fallito anche l’incontro a quattro organizzato a Skopje tra i due e i leader dei due partiti albanesi, Ahmeti, del DUI, alleato di Gruevski e Menduch Thaci del DPA, all’opposizione. Un dialogo fra i quattro maggiori partiti del Paese, quindi, non riesce ancora ad attivarsi mentre continua ad aggravarsi la crisi politica che rischia di far precipitare il piccolo Stato dei Balcani occidentali. I sit-in di protesta ad oltranza rimangono: sia il primo, organizzato dall’opposizione di Zaev il 17 maggio scorso dinanzi alla sede del Governo, sia il secondo, quello dei sostenitori di Gruevski, accampatisi per reazione dinanzi al Parlamento. L’unica decisione che è stata presa è quella di mettere in programma un nuovo incontro a quattro per la prossima settimana.
La paura che un’escalation in Macedonia possa avere un impatto pericoloso sulla stabilità degli interi Balcani Occidentali, è condivisa da molti: primo fra tutti il premier serbo Aleksander Vucic, che la scorsa settimana aveva ammesso di essere per la prima volta “un po’ spaventato”. Timori, quelli di Vucic, condivisi anche da Mosca, che ha più volte espresso attraverso il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, preoccupazione non solo per la situazione in Macedonia, Bosnia e Kosovo, ma anche per la crescita delle pretese a favore di una ‘Grande Albania’ nella regione, il sogno di Tirana e dei gruppi di etnia albanese. Come quelli che all’alba del 9 maggio sono stati protagonisti degli scontri di Kumanovo.
L’attacco che si è consumato nella città al nord della Macedonia, popolata per la maggior parte di albanesi, dove sono rimaste uccise 22 persone tra poliziotti di Skopje e guerriglieri del gruppo armato i cui componenti sono risultati essere molto vicini all’UCK (l’acronimo albanese per Esercito di liberazione del Kosovo), ci ha portato indietro di 15 anni, alla primavera estate del 2001, quando il Paese fu preda di violentissimi scontri tra l’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese (NLA) e le forze di sicurezza macedoni, dopo che la crisi del Kosovo aveva esacerbato le tensioni esistenti con la minoranza etnica albanese, che costituisce il 25% della popolazione. Gli accordi di pace di Ohrid, firmati il 13 agosto del 2001, avevano messo fine ai violenti combattimenti e dato il via all’implementazione di una serie di riforme per i diritti della popolazione di etnia albanese e ad una piccola operazione Nato.
Lo stesso Lavrov, qualche giorno dopo i fatti di Kumanovo aveva inoltre protestato per la linea, giudicata troppo “morbida”, di Bruxelles e della Nato nei confronti delle azioni del gruppo terroristico albanese, denunciando poco dopo come la crisi in atto in Macedonia fosse dovuta ad eventi “sfacciatamente diretti dall’esterno”. Gli interessi stranieri in effetti sono molti. “La Macedonia è un Paese strategico nei Balcani”, afferma Tamás Fodor, uno dei responsabili delle relazioni esterne di Jobbik, il partito ungherese candidato a vincere le prossime elezioni in Ungheria. “La situazione è molto complessa perché gli interessi che si scontrano sono molti: in primo luogo quelli dei Paesi confinanti, Albania, Bulgaria, Serbia, poi quelli degli Stati Uniti e della Cina che possiede dei rilevanti investimenti in Macedonia”, continua Fodor, “per questo sono sicuro che non si tratti di una questione che riguarda semplicemente la politica interna, ma che la protesta sia stata spinta dall’esterno”.
Ad avallare questa ipotesi, oltre alle connessioni che qualcuno ha paventato tra l’ambasciatore americano in Macedonia Paul Wohlers e uno dei membri del gruppo armato albanese rimasto ucciso nell’assalto a Kumanovo, che sarebbero provate da una fotografia che ritrae i due assieme, c’è anche il dibattito sul mistero di chi stia fornendo al capo dell’opposizione Zaev, il materiale scandalistico che con cadenza settimanale tira fuori contro Gruevski. Zaev, infatti, era già stato accusato nel gennaio del 2015 dal governo di aver tentato “il primo colpo di Stato dall’indipendenza” a Skopje con l’aiuto “di un servizio segreto straniero”, che gli avrebbe fornito le prove degli scandali sulla corruzione e il malgoverno di Gruevski. Quattro persone vicine al leader socialdemocratico sono state arrestate con l’accusa di tentato golpe mentre Zaev protestava pubblicamente accusando il premier di voler impedire con questa falsa accusa la pubblicazione del materiale contro di lui. Le intercettazioni, le cosiddette “bombe” sugli scandali che coinvolgono il primo ministro, al contrario, hanno continuato ad essere diffuse, portando all’organizzazione della grande manifestazione di piazza contro il governo, organizzata dall’opposizione socialdemocratica il 17 maggio scorso a Skopje, che avrebbe dovuto provocare, secondo i piani, il rovesciamento del governo di Gruevski. Ma così non è stato.
“La modalità d’azione, ovvero la mobilitazione del popolo attraverso la diffusione di intercettazioni e le denunce di scandali sulla corruzione, mi fa pensare a quello che è successo in Ucraina, in Georgia ed anche nelle Primavere Arabe” spiega Tamás Fodor, “sono convinto che la Macedonia potrebbe diventare, come l’Ucraina, un nuovo terreno di scontro fra le grandi potenze”. L’oggetto del contendere sarebbe l’atteggiamento del governo macedone, contrario alle sanzioni contro la Russia e aperto al passaggio del Turkish Stream in Macedonia, il nuovo gasdotto alternativo al progetto South Stream, abbandonato a dicembre scorso da Putin, il cui lancio, secondo le ultime dichiarazioni del governo turco, è previsto per il 2017. “Il fatto che il governo macedone abbia scelto di partecipare alla costruzione di questo gasdotto è probabilmente una delle principali motivazioni per cui è stata creata questa protesta” conferma Fodor. La Macedonia e i Balcani, infatti, rappresentano una pedina cruciale per gli Stati Uniti e per la politica di sicurezza dell’Ue, e l’Occidente non può permettersi di lasciarla a Mosca.
Per questo il rilancio delle tensioni interetniche e le denunce di deficit democratico vengono considerate come un possibile strumento per destabilizzare il Paese e rilanciare i progetti di adesione all’Ue con un eventuale nuovo governo. “Non penso che le tensioni con i gruppi albanesi possano degenerare come nel 2001, ma se continueranno possono rappresentare senza dubbio una minaccia per i Balcani” afferma Fodor. Ciò non toglie che assecondare il risorgere di conflitti interetnici nei Balcani, assumendo posizioni morbide e tolleranti, potrebbe essere un gioco molto pericoloso per l’Europa.
Infatti, l’esperienza del Vicino Oriente, e non solo, ha ampiamente dimostrato che le situazioni di forte polarizzazione etnico-religiosa, e gli Stati dove regnano il caos e la debolezza istituzionale, rappresentano il terreno ideale per lo sviluppo dei gruppi terroristici legati al fondamentalismo religioso, che si innestano e si sviluppano proprio su queste linee di frattura sociale. Cercare di evitare l’escalation della crisi Macedone sarà quindi fondamentale per l’Europa, anche e soprattutto al fine di evitare di ritrovarsi un nuovo Califfato al di là dell’Adriatico.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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