Dilma Rousseff ha perso il suo mandato di Presidente della Repubblica Federativa del Brasile. In una decisione storica, il Senato Federale ha approvato per 61 voti a 20 l’impeachment della prima donna eletta a capo del gigante sudamericano. Durante il suo discorso di difesa, pronunciato davanti ai senatori, Dilma ha dichiarato che il processo di impeachment l’avrebbe condannata “per il quadro d’insieme”. Con questa frase sibillina, l’ormai ex-presidente intendeva sottolineare che veniva cacciata non per aver commesso un reato, ma perdeva il suo incarico a causa di una manovra di palazzo, un complotto politico ordito dal suo vice, Michel Temer, che assume ora il comando del Brasile. Ed è questo il messaggio che la sinistra brasiliana cerca di propagandare al mondo. Le cose non stanno così.
Sotto un profilo formale Dilma non è stata condannata solo perché ha violato la Costituzione e la Legge di Responsabilità Fiscale, avendo contratto prestiti da banche pubbliche per truccare i conti federali e per aver firmato decreti di spesa senza l’autorizzazione del Congresso. Entrambi procedimenti illegali. Sotto un profilo sostanziale, Dilma viene allontanata dalla Presidenza per i gravi errori commessi e per la pessima gestione del governo, principalmente nel settore economico, che ha portato il Brasile al disastro.
Tutti gli errori di Dilma Rousseff
Quando venne eletta per la prima volta, nel 2010, la presidente uscente ereditò dal suo predecessore Lula un paese in forte espansione. Il PIL cresceva a +7,5%, la disoccupazione era sotto il 5%, il dollaro valeva circa 2 reais, la bilancia commerciale e dei pagamenti era in attivo e l’inflazione era sotto controllo. Il Brasile aveva appena conquistato il diritto di ospitare la Coppa del Mondo di calcio e le Olimpiadi, e pareva destinato ad radioso futuro.
Tuttavia, Dilma non era e non è Lula. Entrambi fanno parte dello stesso partito, il Partido dos Trabalhadores (PT). E l’ex-sindacalista metalmeccanico l’ha scelta come sua erede e fatta eleggere grazie ai suoi voti. Ma la distanza ideologica tra i due é profonda. Pragmatico e flessibile Lula, profondamente ideologizzata Dilma. Lula ha flirtato per otto anni con i mercati. E l’economia ha risposto bene. Dilma è stata più radicale. E la decisione di portare avanti una politica economica ultra-keynesiana ha portato il Brasile al disastro. La cosiddetta “Nuova Matrice Macroeconomica”, applicata dal primo mandato, pretendeva di stimolare investimenti e produzione attraverso una crescita artificiale del consumo basata su spesa pubblica massiccia, sussidi, protezionismo e apertura dei rubinetti del credito a famiglie e alle aziende scelte dal governo come “campioni nazionali”.
Risultato: la peggiore crisi economica che il Brasile abbia mai conosciuto nella sua storia. Peggiore di quella del 1929. Il PIL si è contratto per tre anni consecutivi, arrivando a -3,8% nel 2015 e probabilmente -4% nel 2016. L’inflazione è scoppiata, arrivando a toccare quasi l’11% l’anno, con picchi di oltre il 100% nel settore alimentare, quello che più pesa nei bilanci delle famiglie povere. La disoccupazione è più che raddoppiata, passando dal 4,8% all’11,3%, con una riduzione aggiuntiva del livello medio dei salari. Dal 2010 al 2016 il reddito medio pro capite dei brasiliani si è contratto del 22%. Peggio che negli anni ’80, passati alla storia come “decennio perduto”. Numeri da paesi europei per una nazione come il Brasile dove non esiste una rete di protezione sociale analoga.
La spesa pubblica fuori controllo ha portato ad una voragine fiscale: un deficit primario di 170 miliardi di reais nel 2016. Nel 2010 il Brasile aveva chiuso i conti in positivo, con un surplus di 101 miliardi di reais. Sommando gli interessi sul debito, nel 2015 il Brasile ha registrato un deficit nominale di oltre il 9% del PIL. Numeri da Grecia pre-fallimento in un paese membro del G20 e che è la settima economia mondiale.
Non è un caso che il real è andato a picco, passando da 1,75 a oltre 4 reais per ogni dollari in meno di quattro anni. E non è una coincidenza che i titoli del debito pubblico brasiliano abbiano perso l’investment grade, con un rating progressivamente ribassato dalle agenzie specializzate.
L’industria ha sofferto un logo processo di disfacimento. La Petrobras, la più grande azienda del Brasile, è stata salassata con la decisione di blocco artificiale dei prezzi della benzina.
L’obiettivo era comprimere l’inflazione prima delle elezioni, il risultato è stato una perdita di di almeno 70 miliardi di reais. La statale petrolifera, che nel 2008 aveva lanciato la più grande capitalizzazione del mondo, oggi è l’azienda più indebitata della terra. E per la stessa politica populista di compressione dei prezzi, anche l’intero sistema elettrico brasiliano è al collasso.
Non solo, la Petrobras è stata sistematicamente saccheggiata per far cassa per il PT. L’operazione “Lava Jato” ha scoperchiato questo sistema corruttivo, e tutto lo stato maggiore del partito è stato o arrestato o incriminato, tesorieri compresi. Decine di manager piazzati dal PT nei gangli vitali dell’azienda sono sotto indagine o agli arresti. Ma Dilma, che per anni è stata presidente del consiglio di amministrazione della Petrobras e ministra dell’Energia, secondo la sua difesa non ne sapeva nulla. Lo stesso presidente Lula è sotto indagine e verrà probabilmente presto arrestato. E per salvare il suo padrino politico, la scorsa primavera Dilma non ha esitato a nominarlo ministro, in modo da garantirgli un “foro privilegiarlo” e renderlo così intoccabile dalla giustizia ordinaria.
Dopo aver difeso questa politica economica devastante durante la campagna per la rielezione, nel 2014, rigettando con veemenza qualsiasi ricetta di austerità, Dilma ha nominato l’ortodosso Joaquim Levy come ministro dell’Economia. Una decisione apparentemente schizofrenica, che ha lasciato furibondi gli elettori del PT, i quali hanno iniziato ad accusarla di truffa elettorale. Ancora più schizofrenico è stato l’impedire a Levy di lavorare, portandolo alle dimissioni dopo meno di un anno.
Non ha senso affermare che, dopotutto, circa 30 milioni di brasiliani sono stati salvati dalla povertà grazie al PT. Hanno semplicemente iniziato a consumare, temporaneamente, iogurt, carne, vestiti e beni primari. A comprare TV al plasma e telefoni cellulari. Sono stati trasformati in consumatori occasionali, ma non hanno potuto sfruttare miglioramenti in educazione, sanità o infrastrutture. Politiche disdegnate dal governo Dilma in quanto non produttrici di un rapido vantaggio elettorale.
I prodotti che le fasce più basse della popolazione hanno consumato per alcuni mesi sono usciti dal carrello della spesa così velocemente quanto vi erano entrati, a causa della dilapidazione del potere d’acquisto delle famiglie provocato dalla riduzione del reddito, dalla disoccupazione, dall’inflazione e dall’eccessivo indebitamento. Ennesima prova storica che non si possono creare ricchi per decreto-legge.
E il governo Dilma non è stato vittima della crisi globale, come l’ex-presidente ha continuato ad affermare in sua difesa per cercare di giustificare il disastro. In America Latina quasi tutti i paesi sono cresciuti mentre il Brasile è entrato in recessione. Al mondo solo dieci nazioni hanno fatto peggio del Brasile, e tra questi vi sono Libia, Siria e Ucraina, devastate da anni di guerre civili. Dilma è stata vittima di sé stessa, producendo analisi distorte e gravi errori nella gestione della politica economica.
In conclusione, il governo della Rousseff non ha garantito un miglioramento sostenibile delle condizioni di vita dei più poveri.
Se lo avesse fatto, milioni di persone sarebbero scese in piazza chiedendo la sua assoluzione e il suo ritorno al governo. Ma le piazze sono rimaste deserte. Per i brasiliani poveri non c’è nessun “quadro d’insieme” da difendere. La carriera politica di Dilma Rousseff finisce così.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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