“Facebook è sempre stato un posto dove le persone di tutto il mondo potessero condividere i propri pensieri e valori. Noi rispettiamo la legge in ogni Paese, ma non permetteremo mai che uno Stato o un gruppo di individui decidano dittatorialmente cosa la gente possa (o non possa) condividere. Non lascerò mai che questo avvenga su Facebook. La mia volontà è di costruire una piattaforma in cui si possa parlare liberamente, senza aver paura della violenza”. Lo scriveva, sul suo social network, Mark Zuckerberg , l’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo.
Oggi, a tre settimane di distanza da quel post – concluso enfaticamente con “#jesuischarlie” –, Facebook si arrende all’ingiunzione di un tribunale di Ankara, che ha intimato al social di censurare alcune immagini di Maometto ritenute offensive. La credibilità di Zuckerberg come integerrimo paladino della giustizia è durata poco.
Il retorico inno alla libertà di stampa e opinione se n’è andato con il vento, scontrandosi con la realtà. La Bbc racconta infatti che Menlo Park, dopo un primo rifiuto ad insabbiare le pagine contestate, ha ceduto all’ultimatum della Corte, che ha minacciato di mandare offline Facebook in tutta la Turchia (dove, secondo le stime, gli utenti sono circa 40milioni). Una sorte peraltro già toccata a Twitter e Youtube.
E secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Facebook circa le domande di
censura avanzate dai governi, nel semestre gennaio-giugno 2014, le richieste di restrizioni inoltrate da Ankara sono state 1893. È il secondo dato più alto, alle spalle dell’India (che tocca quota 4960).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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