Un eccidio dimenticato, cancellato dalla storia ufficiale. Nella notte tra il 25 e 26 febbraio del 1992 la cittadina di Khojaly (nell’omonima regione dell’Azerbaigian) fu teatro di uno dei più gravi e drammatici eventi del conflitto per il Nagorno Karabakh, tra Armenia e Azerbaigian. Khojaly si trova sulla strada che da Agdam conduce sino a Stepanakert, capitale della regione del Nagorno, ed è situata in prossimità dell’unico aeroporto presente in Karabakh. Uno scalo controllato dall’esercito azero ed essendo strategico per i rifornimenti, diventò presto un obiettivo fondamentale per le forze armene. L’invasione armena del Karabakh doveva, quindi, passare necessariamente per Khojaly.
La sera del 25 febbraio 1992 l’esercito di Erevan, coadiuvato dal 366° reggimento di fanteria russo, iniziò l’attacco contro la città. Non una semplice operazione militare, ma un massacro, un vero e proprio genocidio perpetrato nei confronti della popolazione azera indifesa e in fuga. Molti corpi di uomini, donne e bambini furono mutilati.
Secondo l’Osservatorio dei Diritti Umani, Human Rights Watch, ed altri istituti internazionali, furono assassinati 613 civili, tra cui 106 donne, 70 anziani e 83 bambini. Su una popolazione di 6.300 abitanti. In pratica una decimazione. In occasione del 23° anniversario della strage di Khojaly, il Consigliere d’Ambasciata e giurista Vuqar Haciyev spiega e motiva perché tale strage debba essere considerata genocidio e chiede che venga istituito un tribunale penale internazionale competente.
“Secondo l’articolo II° della convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, adottata il 9 dicembre 1948, per genocidio – spiega Haciyev – si intende ciascun atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Dunque uccisione di membri del gruppo, lesioni gravi dell’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo.
Caratteristiche che si riscontrano tutte nell’eccidio di Khojaly. Un episodio che ha contribuito ad acuire non solo le tensioni, ma anche il rancore tra i due Paesi. Da un lato Haciyev che sottolinea come i sopravvissuti siano scampati al massacro solo grazie alla fuga; dall’altro le rivendicazioni territoriali armene sul Nagorno Karabakh, ancora oggi non pacificato e fonte di continue tensioni che coinvolgono non solo Azerbaigian ed Armenia, ma anche i Paesi loro alleati.
E la vicenda di Khojaly, irrisolta, non facilita certo il dialogo. A Baku ricordano le dichiarazioni del presidente armeno Serzh Sargsyan, al tempo del conflitto ministro della difesa, in un’intervista rilasciata nel 2000 al giornalista britannico Thomas De Waal: “Prima di Khojaly, gli azerbaigiani pensavano di scherzare con noi, avevano pensato che gli Armeni non avrebbero potuto alzare un dito contro la popolazione civile: siamo riusciti a infrangere tale stereotipo”. L’intervista di Sargsyan certo non contribuisce alla pacificazione e getta una luce diversa sul peggior massacro della guerra del Karabakh. Per gli azerbaigiani rappresentano la conferma che le uccisioni, almeno in parte, sono state un atto deliberato e intimidatorio.
Baku non intende dimenticare e cerca di far conoscere gli eventi anche al di fuori dell’Azerbaigian. Per questo l’Ambasciata Azera a Roma, in collaborazione con l’Associazione “Justice for Khojaly”, a fine febbraio ha proiettato il film-documentario “Endless corridor”, tratto dagli appunti di viaggio di Ricardas Lapaitis (un giornalista inviato di guerra lituano), prodotto dall’unione dei cinematografi europei, nell’ambito del progetto “Caucaso in pace”. Il documentario è una cronaca degli eventi con le interviste dei protagonisti e i familiari dei sopravvissuti.
Un film corale, che coinvolge le popolazioni dei villaggi vicini ed esalta l’impegno di tutti gli Azeri per aiutare i propri compatrioti.Antonciro Cozzi
Associate analyst del think tank “Il Nodo di Gordio”
www.NododiGordio.org
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