Dicembre 2016. "Ma chi te l'ha fatto fare? Come si fa a fare un bambino durante una guerra? Non hai paura", chiedevo a "K" mentre mi trovavo a Damasco. I jihadisti dell'Isis erano lontani solamente qualche centinaia di metri dalla capitale siriana e l'incubo dei colpi di mortaio dei ribelli era una cosa seria. "La vita continua. È più forte. Sempre", mi disse. Ammetto che non mi convinse. Io sapevo che, finito il mio lavoro, sarei tornato a casa dove mia moglie, incinta di cinque mesi, mi aspettava. Proprio come quella di K., che lo aspettava ogni sera, temendo che forse sarebbe potuto non tornare. Dopo poche ore, per me la Siria e la guerra non ci sarebbero stati più. Avrei potuto passare il capodanno tranquillo con i miei amici e gli unici botti che avrei sentito sarebbero stati quelli dei petardi.
Marzo 2020. "Ma chi te l'ha fatto fare? Come si fa a fare un figlio ai tempi del coronavirus?", mi chiedevano pochi giorni prima che mia moglie partorisse. "Beh - rispondevo - ad agosto non potevo certo sapere che sarebbe arrivato il Covid-19 e poi, diciamolo, la situazione è grave, ma non siamo in guerra". Mentre, per l'ennesima volta, pronunciavo queste parole pensavo a K. e alla lezione che mi aveva dato qualche anno prima - "La vita continua. È più forte. Sempre" - e che continuava a darmi dato che, per uno strano gioco del destino, anche ora stavamo entrambi aspettando i nostri secondogeniti.
Ho ripensato a tutto questo quando ho visto il video di George, venuto al mondo proprio nel momento in cui un'esplosione annichiliva il porto di Beirut e parte della città. Il video mostra la mamma che viene portata in sala parto. Si sente una prima esplosione, più leggera, e poi la seconda. Devastante. Le finestre vanno in frantumi e le ostetriche vengono sbattute a terra. Gli oggetti e gli strumenti in sala finiscono sul pavimento. La polvere ingrigisce tutto. Ed è in questo momento, se vogliamo il meno opportuno, che George viene al mondo. Senza nessun aiuto. Senza alcuno strumento che possa aiutarlo. Entra così, di prepotenza, nella vita.
Perché è così che deve essere. Scrive Ortega y Gasset che la nostra vita è determinata dalle circostanze in cui ci veniamo a trovare. Noi siamo le nostre circostanze. A George è capitata la più difficile. È nato tra la polvere e l'aria irrespirabile. Mentre a pochi chilometri da lui centinaia di persone morivano, lui ci ricordava che la vita può essere più forte. Che si può accendere una luce in un mare di tenebre. Che la vita, in quanto tale, è una continua partita a scacchi con la morte, come spiega Antonius Block ne Il settimo sigillo.
O, come ha scritto Tolkien: "Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte".Ed è questa la lezione del piccolo George.
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