In Respira (La nave di Teseo, pagg. 424, euro 22) Joyce Carol Oates riesce di nuovo a stupire il lettore. Dopo un numero di opere che supera il centinaio in cui mette in campo temi, personaggi e stili molto diversi, dal gotico al sociale, dalla violenza alla famiglia, dall'oppressione delle donne ai ricordi d'infanzia, da Il maledetto ai racconti di Notte al neon (appena pubblicati da Carbonio) passando per Blonde, Acqua nera, Una famiglia americana e la quadrilogia dell'Epopea americana, la scrittrice trova una veste ulteriormente inedita. Per la protagonista, Michaela, docente di scrittura che, a 37 anni, sta per diventare vedova dell'amato Gerard, professore di fama, e assiste disperata alla sua agonia; per l'ambientazione, la Santa Tierra desertica e torrida del New Mexico, dove la coppia si è trasferita dal Massachusetts, nella più oatesiana costa Est; e per lo stile, con incursioni quasi allucinatorie, fra l'incubo e lo sdoppiamento di personalità. Joyce Carol Oates risponde da Princeton, dove vive e ha insegnato per anni.
Il titolo del suo nuovo romanzo è Respira. Che cos'è il respiro e perché è così importante? La pandemia ci ha fatto riflettere sul suo significato imprescindibile?
«Respira è una specie di preghiera: per sopravvivere, ovviamente dobbiamo respirare; quando una persona amata comincia a declinare ha difficoltà a respirare. Durante la terribile pandemia, così tante persone sono morte, perché non riuscivano a respirare... Per coincidenza, la frase non riesco a respirare è ed è stata la tragica affermazione fatta dalle persone di colore nella stretta - letterale - dei poliziotti americani bianchi».
Nel romanzo si percepisce un senso di angoscia, che si ritrova in molte altre sue opere. Perché è così centrale nel suo lavoro e nella sua visione del mondo?
«Respira è stato il mio tentativo di raccontare, dall'interno, l'esperienza della veglia, nel corso della ospedalizzazione e della morte di una persona amata; una immersione nelle emozioni di pura angoscia, paura, terrore, incredulità. Volevo esplorare questo stato di coscienza profondamente alterato a cui, virtualmente, nessuno può sfuggire nell'arco della propria vita. E poi volevo esplorare il fenomeno di essere perseguitati dopo la morte della persona amata. Si tratta di una esperienza universale? Secondo me sì».
Il dolore è una presenza molto reale nel romanzo. Come lo definirebbe e perché ha deciso di raccontare proprio questo dolore?
«Perché uno scrittore decide di scrivere su un certo argomento? Perché è vicino, vibrante, vivo, insistente. Il dolore è universale e lo è, specialmente, nella nostra epoca di epidemie improvvise e di morte dilagante. Nel romanzo fa capolino la possibilità che la morte prematura di Gerard sia stata accelerata da uno sviluppo del cambiamento climatico che, a temperature più elevate di quelle normali, porta al rilascio di organismi virulenti nell'acqua. Nei passaggi in corsivo, poi, esploriamo uno stato dell'essere che sembra una febbre, un delirio».
Il paesaggio stesso è protagonista: crudele, deserto, lunare... Che cosa rappresenta?
«Il paesaggio del Sud-Ovest dell'America è sublunare, straordinario. Non è umano: non è su piccola scala, come la maggior parte dei paesaggi in cui ci sono aree boschive e file di alberi all'orizzonte. Nel paesaggio inumano del romanzo emerge un senso della vita più desolato, duro ed esistenziale, rispetto ad ambienti più famigliari».
Anche la solitudine è un tema molto presente: è la nostra grande paura, nel mondo di oggi?
«La solitudine è sicuramente una caratteristica dei tempi moderni. È un fenomeno che è stato documentato spesso, anche prima che la crisi del Covid facesse rimanere così tante persone in quarantena e isolate in modo innaturale».
A un certo punto dice che la scrittura è «un altro mondo in cui vivere». Se è così, vista la quantità di romanzi che scrive, in quanti mondi vive e quali sono i suoi preferiti?
«Tutti gli artisti creativi abitano nei loro mondi speciali mentre lavorano: la letteratura, l'arte, la musica, la danza... Mi entusiasma la sfida di variare i mondi che tento di portare in vita, così che il lettore ne abbia esperienza in modo tanto vivido quanto ne ho io».
Ha mai attraversato periodi come quello che vive la protagonista del romanzo, in cui la realtà l'ha «attaccata»?
«Sì, certamente. Ho avuto delle perdite nella mia vita. Non si tratta di perdite inusuali o fuori dal comune: quella dei genitori, quella di due mariti... Ma, per il sopravvissuto, affranto dal dolore, queste perdite sembrano totalmente nuove e incredibili».
Come riesce a cambiare stile da un romanzo all'altro?
«Molto facilmente! Parliamo in modo diverso in contesti diversi: per esempio, se scrivi una lettera a un amico, di solito non usi lo stesso tono con cui scrivi una lettera a un parente... Non è ovvio? Le voci dei miei romanzi sono tutte diverse perché i personaggi sono diversi. Michaela di Respira è lei stessa una scrittrice, una memorialista, quindi il linguaggio è qualcosa di naturale per lei».
Crede che ci siano dei temi inevitabili per lei, come scrittrice?
«Sì, decisamente ci sono dei temi che, per me, sono dei soggetti inevitabili per il romanzo: la perdita di chi amiamo, la ricerca dell'identità da parte di individui giovani in un mondo complicato che accelera sempre di più, il dramma in corso fra donne e uomini, le difficoltà delle ragazze e delle donne in una cultura patriarcale. Sono affascinata dalla varietà delle personalità umane e amo raccontare storie di individui messi alla prova dalle circostanze che, nonostante tutto, sopravvivono e trionfano, perfino».
Quasi un lieto fine, dopo tanta angoscia?
«La fine di Respira suggerisce un po' di ottimismo, dato che la giovane donna, rimasta vedova, lascia il paesaggio duro e impersonale del Sud-Ovest per il territorio, a lei più
familiare, della costa Est. Addirittura porta con sé una lettera, che non ha ancora letto, ricevuta da un giovane uomo il quale spera di diventare suo amico e verso il quale lei prova una leggera ma palpabile attrazione...».
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