È coerente con lo spirito gioioso e macabro di Gangsters Story (1967), uno dei suoi film più noti, che Arthur Penn abbia festeggiato morendo gli ottantotto anni. E poi, proprio ieri, Bonnie Parker (nel film, Faye Dunaway) avrebbe compiuto un secolo...
Nel 1967 Lyndon Johnson era presidente. Ancora nessun regista mostrava nella stessa scena chi spara e chi muore, perché gli usi lo vietavano. Lassassino doveva - al cinema, almeno - scontare il suo crimine. Raccontando una coppia criminale degli anni Trenta, Penn invece ricorse ai nuovi (allora) effetti speciali, che facevano spruzzar sangue quando i proiettili «colpivano» un corpo. Ma soprattutto diede pari dignità a giustizieri e giustiziati. I cadaveri crivellati di colpi, che sussultano come burattini, alla fine di Gangsters Story sono rimasti nella memoria. Quel film in Italia uscì vietato ai minori di 18 anni, perché era rude - per chi veniva da decenni di cinema dove si moriva al primo colpo, afflosciandosi e mormorando sentite parole - vedere realisticamente comè penoso crepare. Per giunta la Dunaway e Warren Beatty avevano rapinato poco prima una banca allegramente, come in una comica, salvo far esplodere la testa del cassiere.
Quentin Tarantino ha dunque preso tanto da Penn, sebbene questultimo fosse dorigine russo-ebraica e non italiana, come i tanti ai quali il regista de Le iene rende omaggio ogni due per tre. Cè da chiedersi se leuforia della violenza Penn lavesse colta nellItalia del 1946-47, quandera universitario a Firenze e Perugia e dove il sangue dei vinti era corso copioso.
Tornato negli Stati Uniti, Penn lavorò per la tv Nbc e per il teatro. Entrò nel cinema a maccarthysmo declinante, perché le epurazioni - ideate per motivare in senso anticomunista la popolazione dopo lalleanza con lUrss - cominciavano ad aprire dei varchi spazzando via quarantenni come Joseph Losey e Cy Endfield, Abraham Polonsky e Dalton Trumbo. Subentrarono i trentenni, fra loro Penn, e innovò linnovabile. Con Furia selvaggia, su Billy the Kid, lanciò Paul Newman e introdusse silenziosamente - era il 1955 - lomosessualità nel Far West cinematografico, dove era stata comune, come sulle navi che attraversavano gli oceani, fra tanti uomini a cavallo e pochissime signore a letto.
Che la storia non fosse una festa di gala, Penn lavrebbe raccontato anche nel 1966, con La caccia. In un Texas da incubo allaria condizionata, fra odorini di barbecue e voglia di linciaggio, levaso Robert Redford risvegliava i sensi di una Jane Fonda allo zenith, ma egualmente trascurata dalladiposo sceriffo (Marlon Brando) che aveva accanto. Quel film, che negli Stati Uniti piacque meno che in Europa (come quasi tutta lopera di Penn), segnò unaltra svolta: era dai primi anni Trenta che desiderio, impotenza, brutalità non venivano mostrati così a fior di pelle.
Poi cera la guerra in Vietnam. Hollywood ne taceva, perché un popolo nutrito dallanti-colonialismo di facciata stentava a farsi apertamente colonizzatore e non avrebbe pagato il biglietto per scoprire di essere stato ingannato dai suoi politici. E poi la leva obbligatoria rendeva concreta per nove giovani su dieci - quelli che non potevano pagarsi luniversità - morire ammazzati in una risaia. Occorreva allora parlare per metafore.
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