La leggenda di "Palla di fuoco" Roberts

Poche cose sono così americane come la Nascar, il campionato delle auto derivate dalla serie che al Sud è una specie di religione civile. Le stock cars sono però legate alle tante tragedie in pista. La morte di un pilota amatissimo ebbe conseguenze profonde sullo sport, tanto da renderlo popolare anche 60 anni dopo

La leggenda di "Palla di fuoco" Roberts

Poche cose sono collegate in maniera così intima come l’auto e l’idea che abbiamo dell’America. Anche per chi non ha nelle vene sangue e benzina, la sola parola fa venire in mente le tante auto monumentali che abbiamo visto nei film di Hollywood, quelle che ci facevano sognare da bambini. Non erano raffinate ma eccessive, potenti, rumorose, perfette per far schiattare d’invidia gli amici al bar. Per quanto riguarda lo sport, invece, preferivamo di gran lunga le “nostre”. L’automobilismo americano era strano, quasi alieno. Lo strano circo della Nascar, le coloratissime macchine derivate dalla serie che sfrecciano a velocità folli sugli ovali degli Stati Uniti, è quasi incomprensibile. Eppure, specialmente nel profondo Sud, sono quasi una religione, con i campioni delle stock cars che sono più popolari dei campioni della NFL. Gran parte del fascino di questo campionato viene dalle origini proletarie, dal fatto che le prime corse le facevano i bootleggers per sfuggire alla polizia con il bagagliaio pieno di moonshine, liquore clandestino prodotto in barba al proibizionismo.

NASCAR 2006 ANSA

Oggi la Nascar non ha più niente di “campagnolo”, è un campionato altamente tecnologico ma almeno uno degli aspetti dell’era eroica non è ancora scomparso. Correre sugli ovali ad oltre 300 km/h è maledettamente pericoloso. Dal 1952 al 2001 nel campionato sono morti ben 28 piloti, inclusi alcuni campioni popolarissimi come il grande Dale Earnhardt. Quasi nessuno di queste stelle redneck, ignorate dalla gente che piace alla gente che piace e idolatrate dai “bifolchi” del Sud sono ammantati di mito come un talentuoso pilota della Florida che diventò la prima superstar dello sport.Sono passati 59 anni dalla sua morte sull’ovale di Charlotte ma questa tragedia fu fondamentale per trasformare questo campionato da una curiosità regionale nel più popolare sport motoristico oltreoceano. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta nel Sunshine State per raccontarvi la storia di Glenn Roberts, meglio conosciuto come “Fireball” e di come la sua dipartita fu talmente traumatica da costringere la Ford a pensionare anticipatamente l’auto nella quale aveva trovato la morte.

Una vita al massimo

Glenn Roberts era nato a Tavares, in Florida, il 20 gennaio 1929 ed aveva passato gran parte della sua vita in una cittadina altrettanto anonima, Apopka. Allora, prima che l’aria condizionata diventasse ubiqua, nell’interno della Florida non succedeva quasi niente, tanto da spingere il giovane Glenn a dedicarsi allo sport. Le auto, però, non furono la prima passione di Roberts: da bambino adorava il baseball e fu proprio sul diamante che si guadagnò il famoso soprannome che l’avrebbe reso popolarissimo. Anche se le auto veloci gli erano sempre piaciute, se la cavava molto meglio sul monte di lancio. Divenne “Palla di Fuoco” quando lanciava per gli Zellwood Mud Hens, nome davvero curioso di una squadra amatoriale dell’American Legion, una versione più patriottica dei famosi scout. La sua palla veloce, a sentire i catcher, gli faceva quasi andare in fiamme i guantoni. Alla fine, però, fu il destino a spingerlo verso il colorito mondo delle stock cars. Nel 1945 si era arruolato nell’aviazione ma, visto che aveva l’asma, fu congedato durante l’addestramento di base. Deluso, si iscrisse all’Università della Florida e, tanto per passare il tempo, si mise a gareggiare nel fine settimana sulle piste di terra battuta che, una volta, si trovavano ovunque nel sud degli Stati Uniti.

1957 Ford Fireball Roberts Wikimedia

Appena compiuti 18 anni, Roberts riuscì a correre sul tracciato “stradale” di Daytona Beach, non il monumentale ovale, che sarebbe stato costruito solo nel 1959. Al volante, Glenn se la cavava decisamente bene, tanto da fargli vincere a soli 19 anni una gara di uno dei tanti campionati minori che appassionavano il pubblico. Gara dopo gara, vittoria dopo vittoria, iniziò ad attirare l’attenzione delle scuderie maggiori, tanto da farlo approdare nel 1950 alla Grand National Series della NASCAR. Per 14 anni fece impazzire i tifosi del campionato: nelle 206 gare corse, ne vinse 33, finendo nei primi 10 per ben 122 volte, un risultato impressionante in una serie famosa per essere estremamente equilibrata. Le sue vittorie più memorabili le colse sul superspeedway di Daytona, dove vinse la 500 miglia del 1962 mettendosi dietro un giovane Richard Petty, che sarebbe diventato una leggenda dello sport, ma non solo. Adorava le macchine veloci, anche quelle europee, più familiari alle nostre latitudini: nel 1962 trovò anche il tempo di partecipare alla 24 Ore di Le Mans con una Ferrari 250 GTO, vincendo la sua categoria.

Eppure, nonostante le sue tante vittorie, “Palla di fuoco” era così popolare da farsi rispettare nel notoriamente litigioso mondo dei piloti delle stock cars. Nei primi anni ‘60 riuscì a convincere gli altri piloti della Nascar ad organizzare una specie di sindacato dei piloti, la Federation of Professional Athletes. Il presidente del campionato Bill France fu scandalizzato dal fatto che il sindacato fosse affiliata con la Teamsters Union, il sindacato dei camionisti molto politicizzato e, secondo alcuni, infiltrato dalla mafia. Roberts non si lasciò scoraggiare e continuò per la sua strada. Aveva voglia di usare a fin di bene la sua popolarità e, vista la sua proverbiale determinazione, ci sarebbe anche riuscito. Purtroppo, il destino cinico e baro aveva riservato per lui un finale tragico.

Una tragedia evitabile

24 maggio 1964, Charlotte Motor Speedway, si corre la World 600, gara del campionato Nascar. Gran pubblico sugli spalti, molti per vedere proprio il famoso Fireball, famoso per le sue evoluzioni sugli ovali di tutta l’America. Roberts non era al massimo: era riuscito a qualificare la sua Ford Galaxie numero 22 della scuderia Holman-Moody solo in undicesima posizione, nel bel mezzo del gruppo. Chi ha visto almeno una volta una gara su un ovale sa bene che trovarsi in mezzo a venti altre vetture mentre si va a velocità pazzesche ti mette alla mercé delle scelte degli altri, senza il tempo di reagire. Solo sette giri dopo la bandiera verde, Ned Jarrett e Junior Johnson esagerarono con le sportellate, andando in testacoda: Roberts fece l’impossibile per evitare la collisione ma perse il controllo della pesante Ford e si schiantò ad alta velocità nel muro che protegge i box. L’auto colpì il muro col posteriore, proprio dove si trovava il serbatoio, prima di rovesciarsi e causare un’enorme esplosione. Jarrett riuscì ad uscire dalla vettura e trascinare fuori dall’inferno l’amico, perdendo due dita per rompere il vetro. Le auto dell’epoca non erano state pensate per le emergenze e gli interminabili secondi che ci vollero per portarlo al sicuro ebbero conseguenze devastanti.

L’80% del corpo del campione era coperto in ustioni di secondo e terzo grado, una situazione quasi disperata vista la tecnologia medica dell’epoca. Nonostante tutto, fu trasportato in elicottero ad un ospedale specializzato, dove si provò di tutto per salvargli la vita. Ironia della sorte, in quell’infausto Memorial Day, il giorno nel quale gli americani ricordano i soldati di ogni guerra che hanno compiuto il sacrificio estremo per il loro paese, ci fu un incidente gravissimo alla 500 miglia di Indianapolis che costò la vita ai piloti Eddie Sachs e Dave MacDonald. Dopo uno dei giorni più neri della storia dell’automobilismo statunitense, le speranze e le preghiere degli sportivi arrivarono tutte al capezzale di Fireball, che lottò con le unghie e coi denti per sei settimane. Sembrò quasi che il campione della Florida sarebbe riuscito a farla franca anche questa volta ma il 30 giugno purtroppo contrasse la polmonite e una delle sue ferite andò in sepsi. Nel giro di due giorni andò in coma: il trentacinquenne campione non si sarebbe più svegliato. La sua dipartita fu un colpo durissimo per la Nascar, visto che Roberts aveva detto a qualche giornalista che si sarebbe ritirato dalle corse poco dopo, visto che aveva accettato l’offerta di una azienda di birra locale che voleva affidargli le relazioni pubbliche. L’impatto sullo sport fu molto più importante delle sue vittorie: sulla sua tomba si legge che portò alle corse di stock cars, “freschezza, classe, qualità che vanno ben oltre i suoi trionfi in pista”.

Tomba Fireball Roberts Wikimedia

La morte che cambiò la Nascar

L’emozione e la rabbia dei tanti tifosi di Fireball Roberts dopo la sua morte in pista furono un grattacapo enorme per la Nascar, che si trovò costretta a fare una serie di cambiamenti volti a rendere le stock cars meno pesanti e, soprattutto, molto più sicure. All’epoca, anche nelle corse in Europa, la fine più temuta da tutti i piloti era proprio quella toccata a Roberts e che, 12 anni dopo, avrebbe fatto sfiorare la morte al campione della Ferrari Niki Lauda sul temuto Nurburgring. La Nascar si mise d’accordo con una ditta specializzata, la Simpson Performance Products, per creare le prime tute da corsa antifiamma. Sembra impossibile, ma prima di allora molti piloti salivano sulle vetture da corsa indossando solo una maglietta. Dal 1965 fu obbligatorio indossare tute antifiamma per tutti i piloti e l’anno dopo, quando un nuovo materiale ritardante chiamato Nomex fu inventato dalla famosa azienda DuPont, fu integrato immediatamente nelle tute della Nascar.

Daytona 500 2023 Wikimedia

Per evitare che le vetture si trasformassero in un inferno dopo una collisione particolarmente violenta, collaborarono con la Firestone per inventare un nuovo tipo di serbatoio, chiamato FireSafe, che fu reso obbligatorio sulle auto del campionato. Il serbatoio aveva all’interno una membrana di gomma resistente agli strappi riempito di una specie di spugna, così da evitare la fuoriuscita del carburante e ogni rischio di esplosione. Per quanto triste sia stato perdere un campione tanto amato, la sua morte tragica ebbe effetti incredibilmente positivi sul mondo delle corse americane. Poco alla volta, queste innovazioni sarebbero arrivate anche in Europa, tanto da rendere sempre più rare le morti dei piloti che, dagli anni ‘60 agli anni ‘90, erano considerati quasi “normali” nel mondo delle corse. Nessuno nel mondo delle stock cars si è mai dimenticato di Palla di Fuoco, considerato uno dei 50 migliori piloti della Nascar nonostante non abbia mai vinto un campionato. La sua eredità, però, è andata oltre al mondo delle corse. Nel 2007 un reality televisivo a lui intitolato, Fireball Run, impegnò 40 squadre in una corsa su strada lunga 2000 miglia rispondendo a domande di cultura generale. Sessant’anni dopo la sua morte, la figura di Palla di Fuoco Roberts è ancora incredibilmente popolare.

L’auto “maledetta”

La conseguenza forse più inaspettata della morte del campione fu, paradossalmente, legata alla ragione che rendeva e rende il campionato così popolare coi costruttori: il fatto che le auto, almeno in teoria, sono derivate da modelli di serie, che puoi comprare al concessionario dietro l’angolo. La Ford Galaxie era stata introdotta nel 1959 per prendere il posto della fortunata Fairlane, il meglio del meglio che la casa di Detroit poteva offrire. La versione Skyliner, con un tetto rigido retraibile era costosa ma sembrava venire direttamente dal futuro. Certo, non potevi mettere niente nel bagagliaio ma era perfettamente in linea con i tempi, dove tutto, dalle auto ai vestiti, sembrava ispirato dai razzi e dalle capsule che stavano lottando con i sovietici nella corsa allo spazio. La Galaxie era perfetta dal punto di vista stilistico ma, specialmente nelle versioni più lussuose, era estremamente pesante. I team della Nascar gli diedero un’occhiata e si rifiutarono di usarla: non si può correre con una roba del genere. La Ford provò a sostituire qualche pannello con fibra di vetro ma fu del tutto inutile. Provarono a rifarsi con la seconda generazione, introdotta nel 1962, quasi identica alla precedente ma dotata di motori ancora più potenti. Purtroppo la sua rivale numero uno, la Chevrolet Impala, era parecchio più leggera e sugli ovali della Nascar era decisamente superiore.

Ford Galaxie 1964 Convertible Wikimedia

Nonostante tutto, la Ford era ansiosa di vedere la sua auto di punta correre nel campionato più popolare ed offrì significativi incentivi economici. Le conseguenze, purtroppo, non tardarono a farsi sentire: il peso eccessivo causava problemi ai freni e parecchi incidenti. Roberts amava le auto veloci, specialmente quelle europee, leggere, potenti ed agili. Mettersi contro alla potente Ford, però, non era una buona idea. Fu costretto quindi a provare l’impossibile per correre con la Galaxie, anche se era difficile da portare al limite e non esattamente affidabile. Un campione come Fireball sarebbe stato sicuramente in grado di trovare una soluzione, no? Per compensare le tante mancanze, si pensò di usare il motore più potente dell’epoca, il Cammer 427, un V8 da 7 litri che erogava 650 cavalli. Una scelta azzardata, visto che avere così tanta potenza sotto il cofano rendeva la Galaxie un cavallo imbizzarrito, quasi impossibile da controllare. Fu l’inizio della fine per la pesante ammiraglia della Ford: dopo esser stata bandita dai tracciati Nascar, le vendite precipitarono tanto da convincere la casa di Detroit ad interromperne la produzione.

Ford Galaxie 1962 Wikimedia

Un’eredità importante

La cosa francamente incomprensibile è il fatto che un campione morto così tanti anni fa sia ancora così popolare nel mondo delle stock cars. La sua vedova, Doris Roberts, non è sorpresa per niente: da quel maledetto Memorial Day del 1964 la colorita famiglia della Nascar non l’ha mai lasciata sola. Doris è orgogliosa di far parte di questo mondo e felice che i tifosi continuino a ricordare suo marito. Secondo lei, l’evoluzione del campionato è proprio quella che avrebbe voluto Fireball: “Glenn voleva che la Nascar si prendesse più sul serio, che la smettesse di prendere scorciatoie”. Roberts era diventato famoso non perché vinceva più degli altri ma perché guidava in maniera splendida, anche quando non aveva la macchina migliore.

Richard Petty 1984 Wikimedia

Glenn era molto diverso dall’immagine del pilota di stock cars, tutto cappelli da cowboys, esagerazioni e roba del genere: “Era un appassionato di musica classica, molto intelligente, affascinante. Poteva parlare di tutto con tutti ma adorava correre, con ogni macchina. Se c’era da fare sulla macchina, dovevo farmi da parte. Le cose andavano così ma non mi dispiaceva. Se sposi un pilota è normale”. Il rischio era un’altra cosa che si accettava come parte di quella vita ma Doris preferiva ignorarlo: “Quando Glenn mi diceva che a lui non sarebbe mai successo, scelsi di credergli. Ecco come riuscivi ad andare avanti, gara dopo gara. In fondo, però, sapevi che ogni gara poteva essere l’ultima”.

NASCAR Bush White House 2003 ANSA

Glenn Roberts era sempre rimasto coi piedi per terra, tanto da garantire un futuro tranquillo alla moglie e alla figlia Pam ma non fu semplice riprendersi dallo choc. Nel febbraio del 1965, Bill France Junior, che sarebbe diventato presidente della Nascar chiese a Doris di presenziare alla corsa più importante dell’anno, la Daytona 500. La vedova di Fireball rifiutò seccamente ma cambiò idea quando parlò con la figlia, che voleva andarci. La famiglia della Nascar si strinse attorno a loro: “Tutti ci trattarono benissimo, proteggendoci in ogni modo. La Nascar non ci ha mai lasciato sole, ci siamo sempre sentite parte di quel mondo”. L’unica cosa che non è mai riuscita a fare è andare su quel maledetto ovale di Charlotte. Doris sorride quando qualcuno gli dice che faceva il tifo per Fireball e sembra essersi messa alle spalle la tragedia. “C’è gente che mi dice che, dopo la sua morte, non sono più andate a vedere una sola corsa. Mi dispiace, vorrei che tornassero. La Nascarha fatto passi enormi in questi anni, Glenn ha lavorato duramente per renderlo possibile”.

Daytona 500 2000s Wikimedia

L’ultima frase dell’intervista potrebbe essere condivisa da chiunque abbia dovuto dire addio troppo presto ad una persona cara: “Don Garlits, il pilota di dragster, mi disse una volta: ‘Doris, guarda come siamo invecchiati! L’immagine di Fireball è invece lì, congelata per sempre”. Muor giovane chi è caro agli Dei, si diceva un tempo.

Almeno per quanto riguarda gli amanti della Nascar, Glenn Roberts è ancora vivo nei loro cuori. Magari è una magra consolazione ma, se non altro, la sua morte insensata riuscì a salvarne molte altre. Una cosa è certa: storie come queste possono succedere solo in America.

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