Martha Argerich (Buenos Aires, 1941) non suona il pianoforte. È il pianoforte. Un miracolo vivente: tale per longevità professionale - non c'è strumentista coetaneo che abbia la sua tenuta - e perché quando mette le mani sulla tastiera la trasforma. Una dea, sfinge impenetrabile. Inafferrabile. In una parola: un'artista. L'abbiamo incontrata all'Isola d'Elba, qui per inaugurare l'omonimo festival che si spinge fino al 14 settembre. Argerich ha preso aerei, auto, traghetti per raggiungere l'isola dove Napoleone in quel lampo di permanenza riuscì a edificare un teatro-gioiello, ora sede del festival. Donna di slanci e generosità (fuorché con sé poiché troppo perfezionista), ha suonato per Claudio Abbado, nel decennio della scomparsa. La si è poi vista spettatrice del recital della quindicenne Arianne Beck, fenomeno che ha preso sotto l'ala, come suole fare da sostenitrice delle giovani leve.
I talenti continuano a fiorire.
«Ero nella giuria del concorso di Vigo, in Spagna, e anche qui ho sentito un ragazzo turco di 14 anni stupefacente».
Che consigli dà a chi si trova sulla rampa di lancio?
«Non sono donna di consigli. Lascio che i giovani prendano quello che vogliono, devono imparare e fare scoperte».
È una vita di solitudine quella del pianista. Lei è socievole: ha sofferto per questo?
«Tutti ne soffriamo, anche chi non è pianista. È pur vero che non mi piace molto suonare da sola, preferisco fare musica con colleghi, ci si stimola vicendevolmente, vi sono sorprese che scaturiscono solo dal lavoro comune. Studiare per conto mio non è un problema, a pesare è sempre stata la solitudine sul palcoscenico: essere lì, da sola, ah... Del resto, noi pianisti disponiamo di uno strumento che è un'orchestra in miniatura, possiamo esprimere più voci, abbiamo un repertorio immenso».
Al Festival dell'Elba ha eseguito il Primo concerto di Beethoven: l'opera del debutto in pubblico, a Buenos Aires.
«Avevo 8 anni, dirigeva il mio maestro Scaramuzza. Non avevo fatto solo Beethoven, sa. C'era anche il Concerto di Mozart in re minore e una Suite inglese di Bach».
Quando pensa a Martha bimba già così esposta, cosa prova?
«Per fortuna non ho suonato molto in pubblico da bambina. Tutto è iniziato a 16 anni con la vittoria del concorso Busoni di Bolzano e di Ginevra. Fu a Ginevra che vidi per la prima volta Pollini, mi impressionò la bravura di quel ragazzo di 15 anni, ricordo la sua Appassionata e Petruska. Era qualcosa di speciale. Grandissimo».
Per fortuna ci sono giovani assai promettenti, altri ormai una garanzia.
«Sì, ma non di quel tipo. Di Pollini ce n'è uno».
Ha suonato per Abbado.
«... con una piccola orchestra, senza direttore. Strano come omaggio a un direttore, vero? O forse lui c'era...».
Che ricordi ha?
«Tantissimi e bellissimi. Ci siamo conosciuti che avevo 14 anni, a Salisburgo, eravamo nella classe di Friedrich Gulda. In quel periodo Claudio era pianista. Spesso vado su YouTube, vederlo dirigere è meraviglioso. Come musicista era un qualcosa di straordinario, di totalmente diverso, un principe (ndr, alza gli occhi al cielo). Ci manca».
Ha parlato di artisti straordinari. Lei è una pianista unica, su questo convergono critica e pubblico. Ne è consapevole?
«Tutti siamo unici».
Ma lei in modo speciale.
«Ah sì? E perché?»
Perché trasforma il pianoforte.
«Posso solo dire che quando suono mi sento viva più di quanto accada in altre situazioni o contesti. Suonando mi sento vivere, sì... vivere».
Per questo l'agenda è fitta come un tempo?
«Però sto suonando troppo. Riprendere pezzi di repertorio mi costa più fatica di una volta, prima era tutto più semplice. Sarà l'età».
Migliaia di concerti, eppure prima di metter piede sul palcoscenico la
vediamo ancora nervosissima...«Sento la responsabilità di trasmettere al pubblico quello che la musica ha provocato in me. Non è semplice. La musica è un tale mistero, talmente straordinaria che è difficile parlarne».
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