Enzo Jannacci, le sue migliori 5 canzoni a dieci anni dalla morte

Ha raccontato la milanesità (e non solo) con dei brani geniali che hanno segnato la storia della seconda metà del Novecento

Enzo Jannacci, le sue migliori 5 canzoni a dieci anni dalla morte

Enzo Jannacci, geniale cantastorie che ha rivoluzionato il concetto di canzone italiana dal dopoguerra al nuovo millennio, è scomparso dieci anni fa esatti. Le sue opere sono diventate parte della storia quotidiana di tutti: dei nostri linguaggi e dei nostri modi di capire e vedere le cose. Nato a Milano il 3 giugno 1935, il Dottore (soprannome non casuale, essendo stato lui anche cardiochirurgo) ha attraversato il proprio intero percorso musicale sulla mimica e sulla gestualità della parola, dando voce a tutto un mondo non rappresentato e fino a quel momento silente.

Enzo Jannacci

L'artista ha fotografato con la voce la sua città: dall'Idroscalo a Rogoredo, passando per Piazza Beccaria, via Canonica, le rive del Naviglio. Luoghi e paesaggi che fanno da colonna sonora delle sue più belle canzoni. In più di cinquant'anni di attività ha dato libero sfogo al suo lato ironico ed istrionico, scrivendo brani memorabili, a volte portati al successo da altri grandi personaggi. Nei suoi vari incontri artistici, ha collaborato con colleghi del calibro di Giorgio Gaber, Dario Fo, Cochi e Renato, Bruno Lauzi, Milva, Paolo Conte, Tullio De Piscopo, Pino Donaggio e molti altri ancora. A dieci esatti dalla sua scomparsa, celebriamo la sua figura con i suoi 5 canzoni da ascoltare almeno una volta nella vita.

El purtava i scarp del tennis (1964)

"El purtava i scarp del tennis" è una delle canzoni più belle di Jannacci. Fu scritta in collaborazione con Dario Fo nel 1964 ed è in dialetto milanese. Negli anni 60, gli anni del boom economico, le scarpe da tennis le portavano solo i poveri e vennero scelte appunto da Jannacci come simbolo di quella classe sociale di emarginati a cui lui, nelle sue canzoni, tentava di restituire la giusta dignità. Tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro classe sociale ed economica, quando sono onesti e corretti meritano di essere trattati con rispetto e dignità. Il filone sociale sul Jannacci aveva focalizzato la propria attività musicale resterà in voga anche negli anni successivi.

Vengo anch'io. No, tu no (1968)

Per molti si tratta di una canzoncina leggera per bambini, ma in realtà è uno dei pezzi più politici dell'Italia degli anni '60. Con "Vengo anch'io. No, tu no" Jannacci diede voce agli esclusi della società, che lo ricambiarono con un enorme successo. Era un'analisi cruda di una parte di umanità relegata ai margini della società, estranea agli avvenimenti che le si verificano intorno: sia che fossero personali sia che si estendessero alla sfera sociale e politica. L'arrangiamento fu senza dubbio azzeccato, peculiare di un genere di musica, che in quel periodo riuscì a veicolare la frustrazione di tutti coloro che si sentivano "esclusi".

Ho visto un re (1968)

Si diceva di Dario Fo. La sua "Ho visto un re", - scritta con Enzo Jannacci - ad un primo ascolto sembra quasi un nonsense, un susseguirsi di immagini ironiche (come quella del vescovo che "faceva un gran baccano, mordeva anche una mano"), ma in realtà è un intreccio di metafore che rivelano l'amara, graffiante, critica socio-politica dissimulata nei versi di satira. Così che anche il contadino al quale "il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore, persino il cardinale…gli han portato via: la casa, il cascinale, la mucca, il violino… i dischi di Little Tony… la moglie!... e un figlio militare” (oltre ad avergli ammazzato il maiale), "lui non piangeva, anzi: ridacchiava". Ma non perché fosse matto, ma perché "sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re. Fa male al ricco e al cardinale". Fo s'ispirò al "bei-bei", canto polivocalico tipico della zona compresa tra Grosseto e il Monte Amiata, dove accompagnava canti d'osteria, romanze, serenate e "canzonacce" della tradizione popolare. Un brano che, apparso nel 1968, ne divenne subito uno dei simboli.

Ci vuole orecchio (1980)

C'è un brano che ha un vissuto particolarissimo. Gino e Michele conducevano su Radio Popolare "L'orecchio", una specie di magazine pieno di umanità varia e di rubriche. Buttarono giù la sigla e diedero a Jannacci il foglietto con le parole chiedendogli se la poteva musicare. Lui lo prese invitò la coppia a casa sua e si mise al pianoforte per farla ascoltare: "Però io questa per la radio non ve la do, con questa ci faccio un disco!", disse. Questa è la storia vera di "Ci vuole orecchio". Una canzone in rhythm'n'blues che sottolinea il duplice aspetto di un'orchestra nell'andare a tempo col cantante, e in metafora, nello stare al passo con la stessa vita che è come un'orchestra che assembla a piacimento i propri elementi.

Se me lo dicevi prima (1989)

Se ne potrebbero citare un’altra decina (Quelli che… L'Armando, Bobo merenda, Giovanni telegrafista, Soldato Nencini, Vincenzina e la fabbrica, Mario, Silvano, Veronica), ma la top 5 si chiude con "Se me lo dicevi prima". Siamo a Sanremo 1989. Il cantautore milanese si presenta con un brano intenso, affatto banale, capace di raccontare con irriverenza e sarcasmo le difficoltà, e a volte anche la vergogna, nel dovere chiedere aiuto dopo un momento difficile.

Jannacci tocca tematiche di grande impatto sociale: dal precariato all'uso di droghe, dal sentirsi sempre inadeguati al non riuscire a risalire una volta toccato il fondo. "Se me lo dicevi prima" è un brano in cui, in fondo, si ironizza sull'incapacità delle persone di venirsi in contro, di aiutare chi ha bisogno d'aiuto quando davvero lo chiede.

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