La Cia sapeva dell’omicidio di un incursore della Folgore con 24 ore di anticipo rispetto al giorno ufficiale del decesso. E la notizia potrebbe aprire scenari imprevedibili. Come nelle migliori trame di film di spionaggio, l’intelligence statunitense è sempre un passo avanti. Ma occorre andare per ordine e spiegare bene di cosa si stia parlando.
Quella di Marco Mandolini è una storia brutale, misteriosa, triste. Brutale perché Marco Mandolini viene massacrato il 13 giugno 1995 con 40 coltellate. A seguire, probabilmente mentre era già morto o agonizzante, la sua testa è stata schiacciata da un masso di oltre 20 chili. Misteriosa perché Marco Mandolini era un parà della Folgore, uno 007 del Sismi, un addestratore Gladio che, dopo lo scioglimento della struttura semi-clandestina – avvenuta nel 1990-, diventa addestratore Nato in Germania.
In stretti rapporti con Vincenzo Li Causi, conosciuto nella base militare di Capo Marrargiu e frequentato professionalmente mentre questi era a capo del Centro Scorpione di Trapani, nel 1995 Mandolini sta indagando informalmente sulla morte del collega e amico, avvenuta in Somalia due anni prima in circostanze poco chiare.
Triste perché Marco Mandolini è stato dimenticato. Non tanto dall'opinione pubblica (dopotutto - in quei primi anni novanta - gli agenti segreti morti sono tanti, difficile ricordarli tutti), quanto dai suoi stessi commilitoni. Dai militari della Folgore.
Quando Marco Mandolini viene ucciso, si trova in permesso presso la caserma Vannucci di Livorno, il che è come dire "a casa". La Folgore è la sua vita. Alla Folgore ha dedicato tutto. E nella Folgore, Mandolini ha fatto carriera, fino a diventare capo scorta del generale Bruno Loi durante la missione Ibis. Siamo in Somalia, fronte caldo, rovente, della cooperazione internazionale. L'Italia è una presenza ingombrante in quel paese, quasi al pari degli Stati Uniti.
Subito dopo il suo ritrovamento presso la scogliera del Romito, a meno di 10 chilometri dalla caserma Vannucci, iniziano a circolare le voci: si è trattata di una questione tra omosessuali. A mettere in giro queste voci sono alcuni dei suoi stessi commilitoni con cui Mandolini ha avuto dei problemi. Sembra girasse droga tra gli incursori che molti ci invidiano. Marco aveva denunciato uno di questi. Lo stesso che - quando si dice il destino - si trovava, insieme ad altri, a bordo del blindato Lince quando Vincenzo Li Causi viene colpito alla nuca dal colpo sparato da un ribelle somalo mai identificato.
Sin da subito la Folgore - universalmente nota per il grande spirito di corpo che ne anima i componenti, per il senso di fratellanza e di patriottismo - si chiude in un silenzio pesante come quel macigno che ha sfondato il cranio di un commilitone. Un silenzio che dura ancora oggi. E se con grande fatica cominciano a emergere brandelli di verità, mentre un'inchiesta è aperta presso la procura di Livorno, lo si deve soltanto a un avvocato, Dino Latini, e a un criminologo, Federico Carbone.
Quest'ultimo, come consulente della famiglia, ha scoperchiato un vaso di Pandora di cui solo lo strato più esterno è stato esplorato.
Quelli della vicenda Mandolini sono gli anni delle stragi, dei tintinnar di sciabole, degli scandali. E della Falange armata. Sono in molti - magistrati, investigatori, giornalisti - a sostenere che i misteriosi telefonisti che a nome della Falange armata rivendicavano ogni tipo di azione violenta si annidassero nel Sismi, e più precisamente nella VII Divisione, quella cui dipendeva Gladio, quella cui apparteneva Vincenzo Li Causi e anche quell'incursore denunciato da Mandolini per droga.
Qualcuno sospetta che lo stesso Mandolini, pur non facendo parte della VII divisione, potesse essere vicino a quell’ambiente. Quale che sia la verità, Marco Mandolini e Vincenzo Li Causi condividevano molte cose. Forse anche qualche segreto. Forse si erano schierati dalla parte sbagliata. O giusta, dipende dai punti di vista. E non è difficile immaginare che Marco Mandolini volesse denunciare tutto quello che era venuto a sapere su alcuni dei suoi commilitoni. Gli hanno tappato la bocca, ma quel cadavere martoriato urla una verità che Federico Carbone ha intravisto tra le carte (molte recentemente desecretate), tra le testimonianze, tra le reticenze, persino tra i silenzi.
Una verità che ad ogni tassello diventa più inquietante. Come la notizia che gli apparati d'intelligence americani con base in Italia sapevano della morte di un incursore della Folgore 24 ore prima di quella che, ad oggi, viene considerata la data dell'uccisione. Quindi il 12 giugno. E non il 13.
A rivelarlo a Federico Carbone - che ha immediatamente informato la procura di Livorno - una fonte riservata. Un generale dell’esercito americano di stanza a Camp Darby e in attività già nel 1995. Un’ufficile molto vicino alla Cia. Una donna. Ma per quale motivo, a distanza di tanti anni, una donna vicina alla Cia decide di parlare con un consulente della famiglia?
"Una motivazione ideologica legata ai traffici di armi in Somalia - ci spiega Carbone - mi ha raccontato che i suoi due fratelli sono morti all'inizio degli anni novanta in Somalia, durante due operazioni militari. Si è identificata nel fratello di Marco Mandolini, nella sua tenacia nel ricercare un brandello di verità".
Tanto Mandolini quanti Li Causi hanno avuto parecchio a che fare con la Somalia. Uno c'è morto ammazzato. Che una 007 americana abbia deciso di aiutare la famiglia Mandolini, che da anni si batte contro i mulini a vento, è strano, ma - se le ragioni sono davvero queste - comprensibile. La stessa donna avrebbe anche riferito alcuni inquietanti dettagli sulla strage di Capaci, ma questa è un’altra storia.
Certo è che se davvero l’esercito americano e la Cia conoscevano la morte di Mandolini 24 ore prima, sono tante le domande che esigono una risposta. Intanto ne facciamo una noi: siamo sicuri che il delitto sia avvenuto su quella scogliera? L'agguato a Mandolini - un super soldato, addestratore di super soldati - dev'essere stato improvviso, estremamente violento. E dev'essere stato portato a termine da più persone, almeno due, almeno addestrate quanto lui.
Immaginiamo che Marco si sia difeso, che abbia combattuto fino all'ultimo respiro, ma è difficile immaginare che tutto questo sia avvenuto su quella scogliera. È vero, lì ci sono delle tracce di sangue che non appartengono a lui. A sostenerlo è il fratello, Francesco, che tuttavia è certo che Marco non sia stato ucciso lì. E allora dove è stato ucciso? Se le rivelazioni raccolte da Carbone sono vere, in un altro luogo. E la Cia lo è venuto a sapere. Chissà se ha saputo esattamente dove. E da chi. E perché.
Al momento del ritrovamento del cadavere, per esempio, qualcuno ha ispezionato i locali della caserma Vannucci? La stanza in cui dormiva Marco? Qualcuno ha verificato quali militari fossero presenti nella caserma in quel momento? Non vogliamo insinuare dubbi, ne alimentare inutili complottismi, ma in un caso di delitto tanto efferato nulla può essere lasciato al caso.
Il fratello, Francesco, ricorda che attorno al 2008 parlò con il procuratore Antonio Giaconi, oggi deceduto, il quale gli disse che nessuna collaborazione vi fu dall’interno della Vannucci. Quindi no, molte cose che potevano essere fatte, non lo sono state. A questo punto ci si aspetta un nuovo impulso all'inchiesta della procura di Livorno. Lo spunto è più che interessante e, se opportunamente verificato, potrebbe aprire una pista.
Un lavoro congiunto tra le parti interessate al disvelamento
della verità e all'ottenimento della giustizia sarebbe in grado, oggi, di fare luce sul caso. Non è troppo tardi, anzi, i tempi non sono mai stati così maturi. E le persone che hanno qualcosa da perdere sono sempre meno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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