I topi ci camminano accanto, spuntano da un momento all’altro mentre attraversiamo il Silos, quel mostro di cemento in centro a Trieste che è la casa ormai da anni dei profughi della rotta balcanica. A pochi passi da Piazza della Libertà, dove si trova la stazione centrale della città, l’edificio, di proprietà privata ed ex parcheggio, è immenso, tetro e pericolante. Un via vai di profughi fanno la spola tra l’interno e la piazza: sono giovanissimi e hanno la faccia di chi ha camminato anche un anno per arrivare in Italia. Quell’Italia che da anni apre le porte, a suon di slogan, in nome dell’accoglienza e dei diritti umani, quell’Italia - di sinistra - che, come abbiamo già raccontato, si concentra solo sugli sbarchi tralasciando i confini terrestri e tutte queste persone che entrano nel nostro Paese giornalmente.
I numeri parlano chiaro, come fa sapere una fonte de IlGiornale.it: “Circa cento persone al giorno arrivano a Trieste varcando il confine con la Slovenia, ma restano fantasmi. Il sistema accoglienza è saturo e per mesi si ritrovano a vagare senza nessuna tutela e senza nessuna attenzione. Non è una novità - continua - la cosa va avanti da anni, il Silos è stato sgomberato la prima volta nel 2016 e poi il sindaco Di Piazza ha ordinato, in accordo con le autorità, altre operazioni del genere ma la situazione resta questa”.
Riusciamo ad entrare dentro grazie ad alcuni afghani e pakistani che ci permettono di vedere come e dove vivono. Uno di loro è arrivato da poco, circa un mese, dopo un viaggio a piedi di dieci mesi. “Home sweet home”, ci dice con un sorriso amaro, indicandoci dove è costretto a dormire: un materasso, attaccato ad altri, in mezzo alla spazzatura che regna sovrana. Montagne di immondizia e un’aria irrespirabile, vetri rotti, ratti, e sporcizia. Così tanta sporcizia che proprio poco più di un mese fa, ci raccontano i migranti, c’è stata una piccola epidemia di scabbia a causa anche dei morsi di topi e delle condizioni igienico sanitarie che sono inesistenti. Non c’è elettricità, non ci sono bagni, non c’è acqua: non c’è niente. “Per fare la doccia dobbiamo andare, quando possiamo e riusciamo, in qualche centro di accoglienza. Ma è difficile”, ci racconta uno che vive lì da mesi ormai. “Per mangiare andiamo in piazza dove qualche volontario ci porta qualcosa per nutrirci e, in inverno, per scaldarci”.
“Quante persone vivono qui?”, chiediamo a un mediatore linguistico-culturale che si batte per superare questa situazione fuori controllo e dare una condizione dignitosa ai nuovi arrivati. “Circa 150 persone, tutte che aspettano di entrare nel sistema accoglienza”. Il punto è proprio questo, infatti, il vuoto normativo di quella che la sinistra sbandiera come accoglienza diffusa. “Nel momento in cui varcano il confine a coloro che vogliono farsi identificare viene dato semplicemente un foglio che attesta l’entrata in Italia ma che non può essere utilizzato per fare domanda nei centri accoglienza prima di qualche mese”, ci racconta. “Ed è così che arrivano e restano fantasmi, costretti ad arrangiarsi senza nessuna tutela, senza un posto dove dormire”.
Il passaggio nell’inferno del silos è quindi un passaggio obbligato, considerato che prima di qualche mese non è possibile provare a presentare domanda per qualche centro accoglienza e considerando anche che sono saturi, le tempistiche si allungano inevitabilmente. “È difficile vivere qui ed anche pericoloso”, ci racconta un ragazzo che arriva dall’Afghanistan. Oltre alle condizioni disumane i nuovi arrivati sono breccia anche di quelle gerarchie interne che da anni sfruttano questo posto come “casa” per affari illegali. Il luogo è “controllato” da alcune persone, i capi, che utilizzano lo stabile per spacciare droga ma non solo, sono loro che gestiscono i migranti, sono i trafficanti di uomini che - in contatto con altre nazioni - organizzano i viaggi in cambio di soldi, molti soldi.
Mentre parliamo con un ragazzo steso su un materasso di fortuna, con una coperta sporca sulle gambe perché malato probabilmente, ci imbattiamo infatti in un dei “passeur” - di origine nordafricana - che immediatamente, quando da lontano vede che stiamo riprendendo, ci minaccia con un’ascia correndo verso di noi. “Questa è casa mia non potete entrare e riprendere, giuro vi ammazzo” ci urla in un italiano decisamente comprensibile. Siamo costretti quindi ad abbassare le telecamere ma l’uomo, giovane anche lui, non si calma e continua a minacciarci avvicinandosi questa volta con un coltello. Ci allontaniamo e continuiamo il “giro” in questo inferno ma ci accorgiamo di essere controllati da alcuni dei suoi uomini. “Qui controllano tutto loro, uno all’entrata, uno all’uscita e uno sempre in giro a vedere cosa facciamo”. Vediamo infatti che, attraverso uno walkie talkie, fa sapere dall’altra parte che siamo ancora dentro.
Un mini mondo di criminalità, oltre che di indecenza. Per questo motivo il sindaco di Trieste Roberto Di Piazza (Fdi), da anni a gran voce chiede di risolvere la situazione creando un hub sul confine dove poter sistemare tutte le persone in entrare in attesa dello smistamento. Una proposta a cui la sinistra, locale regionale e nazionale, fa muro da sempre in quanto gli hub sono considerati inumani e non rispettosi delle condizioni di vita di queste persone.
Ed è così che tutto resta fermo, che i diritti umani restano solo negli slogan, che l’Italia accogliente non è altro che un business per molte persone e a più livelli, a partire dal spacciatore fino ad arrivare alle classi politiche.È forse questa l’accoglienza diffusa di cui parla la sinistra e che difende a spada tratta in nome della protezione e della tutela delle condizioni dei migranti?
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