"La tua infamità non appartiene alla tua mentalità". Infamità è una parola speciale, con un significato chiaro ma una provenienza non certo longobarda. Lo striscione esposto stanotte dalla Curva Nord dell’Inter tira per la giacchetta l’ex capo ultrà 49enne Andrea Beretta, il killer del rampollo di ’ndrangheta Antonio Bellocco che secondo le indiscrezioni del Giornale confermate dalla Procura (non senza qualche irritazione) avrebbe deciso di pentirsi, forse per rivelare la verità sui business dietro le Curve ma anche sul killer del suo predecessore e mentore Vittorio Boiocchi, ucciso la sera del 29 ottobre 2022 in un agguato armato.
Le voci del suo pentimento giravano da giorni, c’è anche chi sostiene che consegnarsi alla magistratura sia stato il suo primo pensiero una volta in cella pur di salvare la pelle, di certo i suoi ex ultras non l’hanno presa bene, la foto dello striscione allo stadio San Siro è finita sulla pagina Instagram dei tifosi nerazzurri. Ma la scelta della parola «infamità» tradisce una serie di meta-messaggi: intanto un avvertimento allo stesso Beretta per convincerlo magari a cambiare idea, stesso dicasi per gli altri tifosi finiti dietro le sbarre e tentati da una collaborazione con la giustizia. Ma anche - e soprattutto - l’uso di un linguaggio mafioso, un’indicazione che appare chiara, come se la ’ndrangheta si fosse definitivamente presa la Curva e i tifosi ne avessero mutuato il linguaggio.
A osservare ci sono gli inquirenti, pronti presto a trasformare le rivelazioni di Beretta in un’altra inchiesta, che rischia di travolgere non solo il tifo ma anche ciò che gravita intorno: droga, parcheggi, security, bagarinaggio, merchandising. Con esiti imprevedibili. Perché la violenza della mafia calabrese, rimasta sottotraccia in nome degli affari, non può essere sottovalutata.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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