Nei pulman diretti in Punjab il maggior rischio sono i mozziconi di sigaretta

Poche centinaia di chilometri coperte in 36 ore per attraversare il confine della regione di Quetta da quella di Lahore. Oltre ai talebani, anche le cattive abitudini dei viaggiatori possono rappresentare un serio pericolo

Nei pulman diretti in Punjab il maggior rischio sono i mozziconi di sigaretta

nostro inviato a Lahore (Pakistan)
I bus della Sada Bahar sono «i migliori in partenza da Quetta», assicura il responsabile dell'ufficio informazioni turistiche, che comunque caldeggia il treno per andare a Lahore. «La ferrovia qui è più sicura, in Punjab vanno bene anche i bus. Ma se volete viaggiare di notte», spiega, «allora l'autobus è l'unica opzione». Il terminal privato della società è moderno solo in apparenza: per dirne una, i bagni non hanno l'acqua corrente. Anche i bus sono più apparenza che sostanza: il decoro barocco con cui i pakistani «personalizzano» qualsiasi veicolo non può nascondere la non più giovanissima età della corriera. Che pure viene caricata all'inverosimile: sul tetto dopo i bagagli «normali» finiscono una dozzina di sedili di automobile, portati fin qui da un carretto trainato da un asino, e una decina di gabbie in legno per uccelli. E un paio di addetti al carico restano sul tetto per tutto il viaggio, in una condizione non esattamente sicura.

A bordo si sale solo dopo essere stati perquisiti. Non ci sono altri stranieri, a parte un ragazzo nigeriano che lavora nel campo dell'abbigliamento, e le donne si contano sulle dita di una mano. C'è un ragazzo ferito a una gamba che va a Islamabad, due giorni di viaggio, e che i parenti depositano sul sedile circondandolo di coperte, nonostante il caldo, e poi frutta, sigarette e acqua. Si parte con un'ora di ritardo, alle 17, e l'arrivo a Lahore è previsto per il primo pomeriggio di domani. L'addio a Quetta arriva attraversando una valle disseminata dalle piccole ciminiere fumanti delle fabbriche di mattoni, mentre il bus si lascia la città alle spalle mentre supera decine di vecchi, lenti e coloratissimi camion pakistani, e la «solita» guida in stile asiatico è da brividi. Subito dopo c'è il primo check point della polizia, che controlla solo i passaporti degli stranieri, quindi la strada lascia la pianura e comincia ad arrampicarsi su una gola che sovrasta un fiume, alternando tratti asfaltati a lunghi pezzi di sterrato. Dall'altra parte corre la ferrovia, costruita dagli inglesi agli inizi dell'800 e ancora in funzione. Al confine tra Beluchistan e Sindh lo staff del bus corre a chiudere le tende. «This area is unsafe», spiegano. Si prosegue alla cieca per un'oretta, poi prima del tramonto torna il panorama. Ma le tende si serrano ancora, a intervalli di 20-30 minuti, ogni volta che si attraversa un villaggio o una zona «unsafe», e la corriera è ancora bendata quando lascia la strada principale e parcheggia in qualcosa che dovrebbe essere un'area di servizio. Si mangia seduti per terra, su una spianata di cemento in penombra di fronte alla bassa costruzione che ospita la cucina, e prima di risalire, l'autista invita a richiudere le tende. E si raccomanda di non sbirciare nemmeno. Il bus si rimette in moto, ma stavolta scortato dall'esercito. C'è un fuoristrada con una decina di soldati che lo precede, e due moto che seguono. «Sono solo venti chilometri, appena entriamo in Punjab non c'è pericolo», spiega uno degli steward di bordo con un tono apprensivo che sembra smentire le sue rassicurazioni. Si procede a passo d'uomo e a fari spenti, e i venti chilometri non sembrano passare mai. Ma fila tutto liscio, e anche la strada torna asfaltata, quando ormai è piena notte e dal finestrino finalmente «libero» si intravede un panorama da cartolina del Subcontinente. Beluchistan e Sindh con le loro turbolenze sono ormai dietro le spalle, i talebani dello Swat sono lontani: scampato pericolo. O forse no, perché poco prima dell'alba il bus viene svegliato dalle urla delle ultime fila. L'abitacolo è pieno di fumo, la calca impressionante. Nemmeno il tempo di uscire che il vecchio bus è in fiamme. A bordo si poteva fumare, ma non c'è un estintore, nemmeno un secchio d'acqua. Sul tetto bruciano i sedili di finta pelle, e in breve anche i bagagli stipati lì accanto, mentre dal basso una catena umana prova disperatamente a spegnere il fuoco lanciando zolle di terra sul tetto, dove i tentativi di salvare qualcosa sono vanificati dalla velocità con cui si propaga l'incendio. «Una bomba», spiega a gesti un anziano, aiutando il ragazzo ferito a scendere. Ma l'autista scuote la testa. «Corto circuito», gli grida. Il bus, parcheggiato al bordo della strada, intanto è avvolto dalle fiamme.

Dentro, per fortuna, non c'è più nessuno. Il ragazzo nigeriano si avvicina. «Non è stata una bomba, non è stato un corto circuito. È la gente sul tetto che stava fumando che ha innescato il fuoco».
Quale che sia il motivo, l'autobus è una torcia che illumina la notte: tra vetri che si rompono e gomme che esplodono, brucia per un'ora davanti alla platea dei passeggeri che, sporchi di fuliggine e tossendo per il fumo, guardano in silenzio i loro bagagli, le gabbie per gli uccelli e i sedili per auto ridursi in polvere, prima che arrivi un mezzo dei pompieri a spegnere le fiamme che ormai stavano già esaurendosi. Sorge l'alba, arriva una pattuglia della polizia che stila un rapporto di routine e scappa via. Passano ore sotto un sole rovente prima che arrivi un altro bus a raccogliere i passeggeri appiedati.

Molti dei quali, appena saliti, ricominciano a fumare a bordo, lanciando per terra i fiammiferi, come se niente fosse successo. Ci vogliono tre autobus per arrivare a Lahore alle undici di sera. Trenta ore dopo la partenza, ma vivi.

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