"Nel mio teatro l'arte ci salva la vita e tutto è possibile"

Il drammaturgo e illustratore britannico Edward Carey parla del nuovo romanzo "Edith Holler"

"Nel mio teatro l'arte ci salva la vita e tutto è possibile"

Fra Piccola, il romanzo che scolpiva la vita incredibile di Marie Tussaud e Edith Holler (La nave di Teseo, pagg. 524, euro 24), la favola nera di una drammaturga dodicenne, è passata una pandemia. Edward Carey, inglese di Norwich, drammaturgo, scrittore e illustratore (suoi sono i bellissimi disegni del libro) ha trascorso il lockdown a Austin, in Texas, dove insegna, e dove tornerà dopo questo tour italiano (oggi sarà a Torino, al Circolo dei Lettori, ore 18). È lì che ha immaginato Edith, la piccola protagonista, orfana di madre, una «figlia del teatro» che con l'attività di famiglia - il Teatro Holler, l'ultimo palcoscenico rimasto in piedi a Norwich - ha un legame speciale: non può mai uscire per strada perché è malata e perché, secondo una maledizione, l'edificio crollerebbe. Perciò Edith cresce, vive, sogna e abita nel teatro, e infatti inizia a scrivere anche una pièce, che riguarda un mistero della sua città: la sparizione di tanti bambini, che sembra avere un legame (sinistro) con la Pasta di tarlo, un prodotto tipico di Norwich, inventato dalla leggendaria Mawther Meg. Questa donna aveva salvato la città dai tarli centinaia di anni prima e ora, guarda un po', Edith si ritrova una sua discendente come matrigna...

Edward Carey, che legame c'è fra il romanzo e la pandemia?

«Edith non può mai uscire dal teatro, è chiusa dentro, e tutti stavamo proprio come lei. Io ero a Austin e sentivo moltissima nostalgia dell'Inghilterra: proprio come Edith, visitavo Norwich, che è la città vicino alla quale sono cresciuto, con la mia immaginazione, attraverso la scrittura e la ricerca. E poi in quel periodo tutti i teatri erano oscurati, chiusi, e io ho sempre voluto scrivere un romanzo sul teatro: così ho capito che quello era il momento, proprio quando sembrava impossibile».

Che cos'è il teatro per lei?

«È uno strumento unico. Dalla sala, e dal palco, si può andare in qualsiasi luogo, dall'Inghilterra al Regno delle fate; si può credere che Riccardo III sia veramente lì, vivo. D'altra parte, sul palco avviene anche un viaggio tutto interiore, e questo lo rende una forma d'arte così sorprendente. In Inghilterra, durante la pandemia, molti teatri sono stati chiusi e non hanno mai più riaperto: la loro magia si è persa per sempre. Ecco, in quest'epoca l'arte è volgarizzata ed è vista come qualcosa di inutile: non c'è posto per il teatro nella società».

Voleva mandare un messaggio?

«Volevo scrivere qualcosa sul potere dell'arte, di tutte le arti, che in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, in questo momento, sono minacciate, ridotte al minimo, come se fossero un lusso: ma non sono un lusso, sono una necessità; perché come ci conosceremmo, senza arte? La distruzione dell'arte è fascista. E il teatro è un'arte particolarmente vulnerabile».

Chi è Edith?

«Una bambina costretta al silenzio. Il suo colore è il grigio, come se non esistesse. Volevo scrivere dei bambini che vengono messi a tacere: per questo Edith parla, parla, parla... Mi sono chiesto come sarebbe stata una ragazzina nutrita solamente a fantasia e immaginazione, una figlia del teatro e ho lasciato libera la sua voce».

A sua volta, Edith dà voce a tanti bambini spariti nel nulla.

«Sì. Lasciamo ai ragazzi di oggi una eredità così miserabile, nel Regno Unito e in America... La Brexit, il cambiamento climatico, Trump... Volevo che i ragazzi potessero far sentire la loro voce e il teatro è un luogo grandioso per farlo, perché ti fa credere alle storie sul palco, anche se non sono vere».

Edith dice di sé di essere il teatro, di essere le storie. È così?

«Sì, lei è il teatro: è una macchina per produrre storie, senza sosta. Io stesso ho vissuto per un periodo in un teatro, in Romania, un edificio mostruoso e fantastico, dell'epoca di Ceausescu: è stata un'esperienza molto intensa, perché non lasciavo mai quel mondo, vedevo continuamente persone in costume, parlavo coi personaggi, una cosa da perdere la testa. L'Immaginazione è lì davanti a te, viva».

Ha lavorato in altri teatri?

«Da giovanissimo, in un teatro vittoriano del West End londinese: lo aprivo al mattino presto e lo chiudevo di notte. E quando arrivavo in bicicletta al mattino era solo mio, mio... E a fine giornata, quando era vuoto e buio, e si sentivano i rumori del West End, sembrava un luogo di fantasmi, ed era terrificante e meraviglioso. Tutto il mondo del backstage, considerato noioso e piatto, per me è fatto di oggetti straordinari: pensi che a Stratford-upon-Avon, la città di Shakespeare, c'è perfino una stanza del sangue, dove ci sono molti tipi di sangue finto».

Ha lavorato anche nel teatro delle ombre in Malesia.

«Non potevo credere che qualcosa di bidimensionale avesse uno spirito così potente. Il mio maestro, che non c'è più, portava in vita dei personaggi comici straordinari, e la sua arte nel villaggio era considerata sacra: le persone gli chiedevano di portare quei personaggi al capezzale dei malati. Non so se davvero funzionasse ma io credo in quel potere, assolutamente».

Qual è il potere delle storie?

«Di renderci umani, di farci comprendere quello che è umano, di rivelare la verità attraverso l'esagerazione: senza le storie, vivremmo di nulla. Ogni giorno, continuamente, raccontiamo storie e ciò che facciamo, lo facciamo attraverso le storie. Le favole sono un esempio di questo potere: Cenerentola esiste in tutte le culture umane da millenni ed è una storia di sopravvivenza, primaria».

Che cosa ci dicono le favole?

«Le regole per sopravvivere. Una cosa molto seria. Sono brutali, ma arrivano al cuore della verità, di quello che è un essere umano: come sapremmo che cos'è umano, senza le storie? L'uomo mette le favole in scena da sempre».

I tarli, altre piccole creature protagoniste del libro, sono detti «orologi della morte». Perché?

«Perché era quando si vegliava il corpo di un defunto, in quelle ore di silenzio totale, che in casa si poteva sentire il loro rumore: e io ne ho una memoria profonda, che ho pensato sarebbe stato bellissimo anche mettere in scena».

Come?

«Beh, come Campanellino, che J.M. Barrie non immagina come nel cartone di Peter Pan, ma solo attraverso dei luccichii riflessi nello specchio, rendendola così ancora più magica; così dei tarli, sul palco, si può fare sentire solo il rumore. Rendendoli anche più inquietanti».

Da chi trae ispirazione?

«Per questo libro, da un illustratore che incontrai a Londra poco prima della pandemia e che mi mostrò dei teatrini di cartone vittoriani: perciò ho illustrato il libro con le immagini di quei teatrini, che si possono ritagliare per giocare. Disegno e arte per me vanno sempre insieme».

E più in generale chi la ispira?

«Le fiabe, da sempre. Goya, William Hogarth.

Shakespeare, enormemente: quante parole ha inventato, e se poi ha rubato qualche storia... chi se ne importa. E Dickens, sempre, Casa desolata su tutto, e le sorelle Brontë, soprattutto Charlotte. Ho vissuto 17 anni in America e l'influenza inglese su di me è solo aumentata».

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