«Le sue concezioni riformiste, la sua recisa avversione alla Rivoluzione bolscevica l'avevano da diversi anni distaccata dal movimento rivoluzionario delle masse oppresse». Il lapidario commento che chiude l'editoriale delle Cronache milanesi de «L'Unità» di mercoledì 30 dicembre 1925, all'indomani della scomparsa di Anna Kuliscioff, la dice lunga sui rapporti fra la fondatrice del Partito Socialista dei Lavoratori, sepolta al Monumentale fra i tafferugli delle squadre fasciste, e le correnti più estremiste della sinistra italiana. A un secolo dalla morte la città la ricorda nella mostra «Io, Anna Kuliscioff», fino al 15 marzo a Palazzo Moriggia.
L'esposizione, curata da Marina Cattaneo, segna l'esordio di una serie di iniziative organizzate dalla Fondazione Kuliscioff: attraverso carte, lettere, giornali accanto a oggetti personali, arredi, fotografie e immagini, si ripercorre la vita della «signora del socialismo» (riformista e gradualista, beninteso, e pertanto sconfessato ed estromesso dal Psi nel 1922). Impietosa nella critica a una società italiana che versava nell'arretratezza, era persuasa che l'antidoto fosse l'alleanza fra la migliore borghesia e il proletariato più illuminato.
Laureata in Medicina, tesi in Ginecologia sull'origine batterica della febbre puerperale (sulla scorta delle scoperte di Semmelweis), presto si trasferì a Milano dove, in quanto donna, non fu accettata all'Ospedale Maggiore e lavorò senza compenso a quello dei Poveri. Insieme alla figlia Andreina, avuta da Andrea Costa, e a Filippo Turati, compagno di vita e di ideali (ricco il «Carteggio» fra i due), si stabilisce in un appartamento di Galleria Portici. Qui, sul divanetto verde del salotto -che fungeva da redazione della rivista «Critica sociale», diretta con Turati (teneramente chiamato «Filippotto» o «Filippon»)-, riceve l'intellighenzia milanese, giovani socialisti italiani ed europei -fra cui il «caro ragazzo» Matteotti-, amiche e confidenti.
Entusiasta della salita al potere in Russia di Kerenskij, dopo il colpo di stato di Lenin non esitò a definirlo «Zar del comunismo», rievocando lo spettro giacobino. Da ebrea russa sognò il ritorno del suo popolo alla Terra Promessa (la Palestina) sulla scia delle dichiarazioni di Lloyd George. Preziose le intuizioni geopolitiche, convinta com'era che la partita fondamentale per l'Europa (e l'Italia) si giocasse nel Mediterraneo.
Noto l'impegno per le donne, a partire dalla legge Carcano del 1902 sulla tutela del lavoro, primo strumento di emancipazione femminile. Gli ultimi anni furono funestati da cocenti delusioni: l'ascesa del Fascismo, l'uccisione di Matteotti, la sconfitta dell'Aventino.
A stroncarla fu la tubercolosi contratta anni prima in carcere. Le otto sezioni rievocano le tappe cruciali della vita: la gioventù, l'università, l'incontro con Costa, il carcere; l'impegno per i poveri, Critica sociale, il Partito Socialista.
E ancora la tutela del lavoro femminile e minorile, il salotto, il «Carteggio», i moti del 1898, l'impegno per le riforme, il diritto al voto, la difesa delle lavoratrici; la Guerra, la Rivoluzione russa, il Fascismo.(Orari: mar-dom 10-17.30, ingresso gratuito)
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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