Cannes - «Due anni fa - dice Lars von Trier presentando Antichrist, in concorso al Festival di Cannes - ho avuto una depressione. Per me è stata una nuova esperienza. Tutto mi pareva futile, non riuscivo più a lavorare. Sei mesi dopo, per allenarmi, ho scritto una sceneggiatura: una sorta di terapia, ma anche un test per vedere se avrei potuto ancora fare un film. Che ho girato senza grande entusiasmo, usando metà delle mie doti fisiche e intellettuali».
Poiché quasi ogni regista arriva qui decantando il suo prodotto - per esempio Marina De Van con Monica Bellucci e Sophie Marceau per il presuntuosissimo Ne te retourne pas -, va riconosciuta la sincerità a von Trier.
L'uso del cinema come terapia è molto comune. Forse avrà risolto quelli di registi (per esempio Federico Fellini) e attori (per esempio, Mickey Rourke, fino al Leone d’oro per The Wrestler), ma la catarsi avviene ai danni dello spettatore. Nel caso di Antichrist la sensazione di trasmissione ad altri della propria angoscia è particolarmente forte.
Giunto a Cannes in odore di scandalo sessuale, quello che stuzzica di più la stampa, Antichrist si rivela una catarsi attraverso l’estrema sofferenza fisica per due persone già colpite dal dolore più tremendo: la perdita di un figlio. Che implicitamente von Trier si sia identificato con loro dà la profondità della sua depressione. E ciò va rispettato, perché la sua opera dice il suo valore anche quando è meno ispirata, come in questo caso.
Che cosa non funziona in Antichrist? Gli attori - Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg - fanno quel che possono. Lei ha coraggio - non impudicizia, non esibizionismo - nel rappresentare un tormento derivato da un momento di distrazione: il figlioletto è caduto dalla finestra mentre lei stava amando il consorte. Ovvio che da quell’istante ogni sessualità evochi l’orrore. Dafoe cerca di rendere credibile uno psicoterapeuta razionalista, che ragiona su tutto, che s’illude di trovare una soluzione a tutto. E così porta alla rovina lei, ancora profondamente turbata.
Inventa una implicita seconda luna di miele, nella capanna nel bosco detto Eden, dove lei aveva cominciato una tesi sulle persecuzioni medievali delle donne. La solitudine non incoraggia l’amore, ma la paura e il rimpianto. Lei impazzisce, ferisce il marito e gli applica una mola a una gamba, trapassandone il polpaccio... È solo l’inizio di una vendetta motivata più dal risentimento sessual-secolare che dal recente lutto...
Immagini forti o insostenibili non mancano. Di sessuale c’è meno di quanto si veda regolarmente in ogni grosso festival, immagini che quasi mai giungono intatte allo spettatore comune. Von Trier è stato angosciato, ma non è diventato pornografo. La stessa scelta della Gainsbourg, che appare senza trucco e per giunta col volto di chi patisce il patibile, fa capire che l’erotismo non è il fine, ma il mezzo del film di von Trier, come già nel suo Le onde del destino (Gran premio della giuria 1996).
Ma la connessione del dramma individuale con quello storico delle presunte streghe e soprattutto l’allusione del titolo all’Anticristo (il bimbo morto aveva piedi caprini) restano gratuite. È come se von Trier avesse cercato uno sfondo suggestivo per evitare la trappola dell’intimismo. In effetti ha scansato questa per cadere in un’altra, quella dello splatter d’autore, che proietta il suo film in bianco e nero, che rende lancinante, usando il rallentatore, la marcia del bambino dal letto alla finestra, cioè verso la morte.
Le reazioni dei critici sono state fredde: qualche risata di scherno nei momenti più truculenti, come quando lei si amputa il clitoride,
e di fronte alla dedica finale a Andrej Tarkovsky. Poi una salva di fischi a stento bilanciata da timidi applausi. Insomma, se von Trier ha girato Antichrist «senza grandi entusiasmi», la stampa ne ha avuti ancora meno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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