È uno dei pilastri del Made in Italy nel mondo, esportato ovunque grazie alla sua qualità superiore. Eppure il prelibato tonno rosso è diventato il tonno della discordia. La colpa è delle quote per la pesca, introdotte a livello internazionale per scongiurare l'estinzione della specie, ma attribuite a livello nazionale secondo criteri che non accontentano tutti. E così da qualche mese la suddivisione delle quantità di pesce che gli italiani possono catturare si è trasformata in una guerra fra Sardegna e Sicilia.
Da una parte ci sono le tonnare sarde, fino allo scorso anno le uniche a operare. Dall'altra quella siciliana dell'isola di Favignana che, dopo circa 12 anni di abbandono, qualche mese fa è stata riaperta da un imprenditore locale. In mezzo il decreto del governo che, all'inizio, aveva suddiviso le quote in un modo, per poi cambiare le carte in tavola. Il risultato è che l'isola in provincia di Trapani si è vista riconoscere solo 14 tonnellate di tonno circa cento pesci in un anno - sulle 357 assegnate dal ministero dell'Agricoltura alle cinque tonnare italiane. Le previsioni per la Sicilia parlavano di almeno 84 tonnellate, ma il risultato finale è stato talmente basso da spingere l'imprenditore Nino Castiglione a chiudere lo stabilimento appena riportato a nuova vita, nonostante un investimento di circa un milione e i 40 posti di lavoro creati.
IL LATTE NON C'ENTRA
Questa volta però la responsabilità non è delle quote in sé, come invece era successo anni fa con il latte. Secondo gli addetti ai lavori limitare la quantità di pescato è un bene per tutti, perché permette ai tonni di riprodursi e ai pescatori di continuare a lavorare. Il pasticcio è invece l'applicazione pratica scelta per l'Italia. «Il sistema generale è stato istituito dall'Icatt, la Commissione internazionale per la conservazione del tonno atlantico e dei mari adiacenti proprio per contrastare il rischio, fondato su evidenze scientifiche, di estinzione del tonno rosso pregiudicato dall'eccessivo sfruttamento conferma Dino Rinoldi, docente di Diritto dell'Unione europea all'Università Cattolica -. Le quote sono ripartite fra i vari stati membri. L'Italia, nel Mediterraneo, è al terzo posto con 4.308 tonnellate per il 2019, subito dopo Spagna e Francia».
Insomma, nel complesso non ci possiamo lamentare visto che in tutta l'Unione europea sono 17.500 le tonnellate nel complesso consentite, mentre in tutto il mondo sono 32.500. In pratica il nostro Paese detiene il 27% della quota europea e il 15 di quella mondiale. Il problema è il sistema con il quale il ministero ha deciso di suddividere le quantità. «Quasi tutta la quota per il 2019 è assegnata ai pescherecci (campani e siciliani) e solo una piccola percentuale, meno del 10%, alle tonnare sarde», spiega l'esperto -. Con la riapertura di Favignana sono nati i problemi. «Dal ministero è arrivato ad aprile un primo decreto dice Rinoldi -. Poi ne è arrivato un secondo che ha abbassato il pescato in Sicilia, costringendo l'imprenditore Castiglione a rinunciare, trasferendo a un'altra azienda la propria quota».
Il caso accende i riflettori su tutto il settore. Perché i contingenti, sia pure introdotti per nobili motivi, creano difficoltà anche ad altri imprenditori. «Le difficoltà burocratiche sono enormi spiega Gilberto Ferrari, direttore di Confcooperative-Federcoopesca -. Le quote hanno ridimensionato molto il comparto, sia per produzione sia per numero di operatori. Il progressivo giro di vite sulle possibilità di pesca, unitamente alle difficoltà legate alle autorizzazioni per gli impianti di allevamento, ha avuto ricadute negative anche sulle esportazioni. La filiera di produzione per l'export del tonno cento per cento italiana è ai minimi termini, nonostante l'esistenza di marchi importanti e grandi capacità e potenzialità di sviluppo».
MALTA TERRA PROMESSA
Così, a fare i veri affari, sono gli altri. «Dal 2011 ci limitiamo a pescare e a vendere quasi tutto il nostro prodotto all'estero, in particolare a favore di allevatori proprietari di gabbie di contenimento a Malta. Da qui poi l'80-90% del tonno prende la strada del Giappone, per diventare sushi e sashimi. Un tempo, invece, eravamo noi a contrattare direttamente con i giapponesi». Per recuperare il terreno perduto, in un settore fortemente controllato a livello internazionale, l'unica strada è evolversi. «È arrivato il momento di creare una filiera italiana prosegue Ferrari -. I nostri imprenditori stanno lavorando attraverso integrazioni e accordi fra aziende che operano nel segmento del cosiddetto tonno vivo, cioè quello catturato dalle circuizioni e dalle tonnare fisse».
Nel frattempo gli imprenditori che in questi anni difficili sono riusciti a sopravvivere hanno davanti a sé una sfida ardua: continuare a investire per diventare competitivi. Attualmente in Italia l'obiettivo riguarda le quattro tonnare sarde, 19 imbarcazioni a circuizione, 35 palangari e, da quest'anno, circa 14 feluche. Le uniche realtà a poter pescare il tonno rosso nei nostri mari. Almeno legalmente, visto che il settore soffre ancora la presenza di pescherecci che catturano i pesci incuranti di qualunque legge internazionale, causando danni gravissimi non solo all'ecosistema ma anche al mercato. «La pesca illegale è un fenomeno ancora diffuso, e non solo per quanto riguarda il tonno rosso afferma Silvano Giangiacomi, segretario nazionale Fai Cisl -. Contrastarla con regole e controlli ferrei non può che giovare a tutti. Ecco perché le quote, nonostante i difetti nel meccanismo scelto, non possono essere considerate in modo del tutto negativo. «Contingentare il settore può aiutare a fermare i pescherecci che operano in totale impunità, eludendo le normative internazionali e causando il crollo dei prezzi».
Occorre però snellire la burocrazia, e poi «bisogna migliorare il welfare per i pescatori e le loro famiglie conclude Giangiacomi -. Bisogna puntare sulla sicurezza, sugli ammortizzatori sociali, sul riconoscimento di questa attività come usurante».
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