Nicosia, Cipro - La prima cosa che si nota entrando a Nicosia dall’autostrada che collega la capitale cipriota alla costa, è l’enorme bandiera dell’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro Nord (RTCN), dipinta sulle rocce del Pentadaktylos, uno dei monti della Kyrenia che incorniciano la città. Per i turco-ciprioti è un simbolo di vittoria, per i greci, quello della tragedia di un’occupazione militare che va avanti dal 1974. Per noi è un avvertimento. Ci avvisa che stiamo arrivando nell’ultima capitale divisa. Quella che qualcuno ha ribattezzato la “Berlino del Mediterraneo”, dove i sacchi di sabbia, la rete e il filo spinato ancora tagliano in due il cuore della città vecchia e corrono per 180 kilometri lungo la Green Line, istituita nel 1974 dalle Nazioni Unite, assieme alla missione UNFICYP, per garantire il cessate il fuoco fra l’esercito turco e la Guardia Nazionale a seguito dell’invasione turca del Nord dell’isola avvenuta lo stesso anno. I muri sulla Green Line in realtà sono due: uno nella parte greca e uno in quella occupata dai turchi. A dividerli, c’è quella che i greci hanno ribattezzato la “zona morta”, ovvero la “zona cuscinetto” gestita dai militari delle Nazioni Unite, in cui dal 1974 è stato interdetto l’accesso a tutti i civili. Tuttavia, a partire dal 2003, in previsione dell’acquisizione per l’isola dello status di membro dell’Unione Europea, i governi di Cipro e della RTCN, hanno deciso di comune accordo la riapertura di alcuni passaggi sulla Green Line, due dei quali si trovano proprio nella capitale: il check-point di Via Ledra, al centro di Nicosia e quello dell’Hotel Ledra Palace, quartier generale dei militari delle Nazioni Unite.
Il 20 luglio qui, nella parte greca di Nicosia è il giorno del ricordo di quell’estate del ‘74, quando, in reazione al colpo di Stato contro il presidente Makarios, organizzato dall’EOKA-B con l’appoggio del regime dei colonnelli in Grecia, le truppe di Ankara sbarcarono a Kyrenia dando il via all’Operazione Pace per Cipro - nome in codice Operazione Attila - che in due riprese, nei mesi di luglio e agosto, portò all’occupazione del 36% del territorio dell’isola e del 57% della costa al di sopra della cosiddetta “Linea Attila”, che corre da Morphou Bay a Famagosta. Il sentimento di frustrazione per quello che avvenne 41 anni fa è vivo ancora oggi a Cipro, testimoniato dai murales raffiguranti il Nord dell’isola grondante di sangue, con su il motto “Den Xenho” - non dimentichiamo - o dai messaggi, più o meno celati, che continuamente vengono indirizzati ai turisti e ai più giovani, per sottolineare il carattere di illegalità dell’occupazione. Ѐ il 20 luglio quando al check-point dell’Hotel Ledra Palace, ex albergo di lusso con le mura ancora segnate dai fori dei proiettili, chiedo a un poliziotto se posso entrare a scattare alcune foto nella Buffer Zone. “Ѐ da qui che si entra nella parte turca?” gli chiedo, “No, da qui si entra nella zona occupata”, puntualizza subito, infatti, l’agente. Mi accompagna e mi mostra i due grandi cartelloni allestiti all’entrata del check-point della parte greca. Uno racconta la storia di Tasos Isaak, venticinquenne cipriota, rimasto ucciso l’11 agosto del 1996 nella zona cuscinetto, dopo l’aggressione di un gruppo di militanti turchi dei Lupi Grigi. Nell’altro viene descritta la storia del cugino di Tasos, il ventiseienne Solomos Solomou, freddato dai cecchini turchi mentre, poco dopo il funerale del giovane, il 16 agosto dello stesso anno, tentava di rimuovere una bandiera turca.
Ogni anno, il 20 luglio, a Cipro è anche il giorno del ricordo della tragedia dei rifugiati. Circa 200.000, espulsi dal nord a seguito dell’avanzata delle forze di Ankara. A fornire una testimonianza e alcuni numeri sulla catastrofe umanitaria che colpì la comunità greco-cipriota è Nicos Theodosiou, presidente di una delle principali associazioni dei familiari delle persone scomparse dopo l’invasione turca. Il dolore di quei giorni trapela solo in minima parte dalle foto dell’epoca che sono esposte qui al check-point dell’Hotel Ledra. “Mio fratello Demetris Theodosiou appartiene alla lista dei 1100 dispersi che non sono mai stati ritrovati, nonostante i progetti di riesumazione e identificazione andati avanti per dieci anni. Finora solo 519 famiglie, il 32% di quelle coinvolte, hanno potuto identificare i resti dei propri cari”, racconta Nicos Theodosiou. “Mio fratello”, continua, “aveva 19 anni quando è iniziata l’invasione e stava prestando servizio obbligatorio nella Guardia Nazionale di Cipro. Era gentile, amava dipingere, possedeva un’impressionante personalità e aveva davanti a sé un grande futuro. Sfortunatamente però, il futuro per lui non è mai arrivato”. Le conseguenze dell’avanzata delle truppe di Ankara, infatti, sono ancora vive a Cipro: nei palazzi abbandonati di Famagosta, città fantasma, un tempo affollata meta turistica, o nelle storie dei rifugiati. “Alcune sono davvero strazianti", dice Theodosiou, "come quella della signora Panayota Solomi, che viveva nel villaggio di Komi Kepir, e che ha perso sia il marito, sia i figli. O quella di una coppia di Kato Dherynia, che costretta a lasciare la propria casa a seguito dell’ingresso dei militari turchi ha visto scomparire le due figlie gemelle di tre anni e mezzo e il figlioletto di cinque”.
Molti dei rifugiati e degli sfollati inoltre, nonostante l’apertura dei passaggi sulla Green Line, oggi si rifiutano di tornare nelle loro case. Il motivo è che molti di loro non vogliono fare ritorno alla proprie abitazioni da “turisti in terra straniera”. “Per noi è impensabile”, spiega Theodosiou, “che qualcuno debba controllare i nostri passaporti e stabilire se siamo o meno in diritto di andare a casa nostra. I passaggi sono stati aperti nel 2003 soltanto per ragioni economiche, ma non c’è la minima intenzione da parte dei turchi di restituirci le nostre proprietà”, aggiunge. In effetti, che i dissapori tra le due comunità su questo tema siano tutt’altro che sopiti lo ha dimostrato, di recente, la reazione della comunità turco cipriota, la quale, in risposta alla dichiarazione di qualche settimana fa dell’inviato speciale dell’Onu per la questione di Cipro, Espen Barth Eide, sulla necessità della restituzione dei terreni confiscati dai turchi nel Nord, l’80% dei quali appartenevano alla comunità greco-cipriota, ha scatenato disordini e proteste. Quella della restituzione dei terreni confiscati, del resto, rimane una delle principali rivendicazioni dei rifugiati greco-ciprioti che abitavano il Nord. Assieme a quella della restituzione dei resti dei propri cari. “Stiamo chiedendo da anni alla RTCN la riesumazione dei resti dei nostri cari per poterli restituire alle rispettive famiglie e dare loro una degna sepoltura” spiega il segretario dell’associazione, “dopo 41 anni siamo stanchi psicologicamente, ma questo devono concedercelo perché è un nostro diritto fondamentale”.
E se dopo la ripresa dei colloqui tra il presidente cipriota Anastasiades e il leader dei turco-ciprioti Akinci, si rincorrono le indiscrezioni riguardo un nuovo piano per la riunificazione dell'isola che potrebbe essere sottoposto a referendum già nella primavera del 2016, molti come Theodosiou pensano che “solo la creazione di due entità statali distinte e federate sotto un governo centrale forte potrà garantire un futuro di pace per Cipro”. “Qualsiasi altra soluzione” dice il segretario dell’associazione, “porterebbe solo a nuovi problemi nel futuro”. Mentre oggi è ancora difficile fare i conti con quelli del passato.
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