A 007, il cinema sovietico non oppose un agente del Kgb. Peccato, il ruolo sarebbe stato perfetto per Nikita Mikhalkov: stessa statura, stessa ironia di Sean Connery, ma più eleganza, perché lui viene dall'aristocrazia zarista, non dal culturismo scozzese, come Connery.
E Mikhalkov, oltre che un interprete, si è rivelato un personaggio, all'origine di un pensiero. Il bolscevismo è stato «Lenin più l'elettricità»? Il mikhalkovismo è «Cechov più la nostalgia»: della Russia imperiale.
Mikhalkov discende infatti per il ramo paterno dal primo zar Romanov. La famiglia è passata indenne fra rivoluzione e «purghe», e il padre, quasi centenario, ha scritto le parole sia dell'inno sovietico, per Stalin, sia dell'inno postsovietico, per Eltsin.
Di sé, Nikita Mikhalkov mi dice: «Non ho mai fatto film per governi, per premi, per denari, per il comitato centrale, per Breznev, per Gorbaciov. Li ho fatti di mia volontà e non me ne vergogno, quale che fosse o sia il regime».
Altro che piagnistei di certi reduci della dissidenza: per Mikhalkov, Stalin è stato uno zar sanguinario, ma più zar che sanguinario, visto che ha salvato la Russia dagli stranieri (non solo dai tedeschi). Ma Mikhalkov non rimpiange lui, rimpiange Alessandro III, lo zar che ha impersonato nel suo film Il barbiere di Siberia. Rimpiange insomma la grandezza della Russia.
Da russo - non da cosmopolita - Mikhalkov è diventato famoso da attore e regista insieme con un film postsovietico sull'epoca staliniana, Il sole ingannatore, del 1994, Gran Premio della giuria al Festival di Cannes e premio Oscar. Ora ne sta girando il seguito a Nijni Novgorod. E alla Mostra del cinema di Venezia - dove vinse il Leone d'oro con Urga, del 1991 - concorrerà con 12, il suo ultimo film, che ricalca La parola ai giurati di Lumet, poi rifatto da Friedkin, ma su sfondo ceceno.
Quando ha sentito parlare per la prima volta di Milano, signor Mikhalkov?
«Da due film sui quali ho studiato a Mosca: Miracolo a Milano di Vittorio De Sica e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti».
Prosegua.
«Frequentavo il Vgik, l'equivalente del Centro sperimentale di cinematografia in Italia. Questi film venivano proiettati a noi studenti come classici del cinema».
Era la Milano di barboni e immigrati, fra ricostruzione e boom.
«Allora Milano non era considerata - almeno da noi a Mosca - una città italiana come le altre».
Ovvero?
«Milano ci pareva lontanissima dall'Italia intesa come Paese del sole, dell'allegria, mandolino, carnevale, ecc...».
Dunque?
«Milano era l'Italia che lavora, attiva, animata da uno spirito pragmatico. Insomma lontana dall'idea che uno straniero poteva avere del Paese, di Roma in particolare, alla quale contribuiva un altro film, Poveri ma belli... ».
... del milanese Dino Risi.
«Che alla Scuola di cinema di Mosca era considerato un classico del neorealismo».
Ma in Italia pareva la fine del neorealismo. Lei quando è venuto a Milano la prima volta?
«Nel 1976. Per presentare il mio film ispirato al Platonov di Cechov, Partitura incompiuta per pianola meccanica... ».
Che ricordo ha della Milano d'allora?
«Mi colpirono l'operosità dei milanesi e le vetrine».
La prima era tradizionale, allora. Ma perché le vetrine?
«Erano allestite bene e la merce esposta mi stupiva per qualità e finezza».
Di solito un regista che arriva a Milano dice: «Oh, la Scala!».
«Anch'io ci sono stato. La Scala ha sempre rappresentato una leggenda nel mondo dell'arte».
Dunque?
«A parte lo stupore e la netta percezione del suo legame con la storia, è stato come entrare in un tempio».
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