Guido Lopez, efficace capo ufficio stampa Mondadori ma meno efficace romanziere , uno che aveva a che fare con Simenon, Hemingway e Faulkner, li descrisse così: «coppia stranissima di titolati siciliani, goffi e un po' traballanti... quasi un'apparizione carnevalesca di piena estate».
Luglio 1954, San Pellegrino Terme. Il convegno aveva un titolo eccessivamente didascalico: «Romanzo e poesie di ieri e di oggi. Incontro di due generazioni». In sostanza: un autorevole esponente della cultura italiana presentava un giovane, scommettendo sul suo futuro. Così, Emilio Cecchi promosse Giorgio Bassani, Giovanni Comisso presentò Goffredo Parise, Guido Piovene sponsorizzò Enzo Bettiza, Leonida Rèpaci puntava su Italo Calvino. Quanto ai poeti, Giuseppe Ungaretti elogiò Andrea Zanzotto. Eugenio Montale, per la prima volta in vita sua, commise l'azzardo. Qualche settimana prima gli era stato recapitato un volume dal titolo 9 liriche, affrancato a Capo d'Orlando, con bollo insufficiente. Montale caccia di tasca sua 180 lire, scarta il plico e scopre un poeta. Più tardi avrebbe parlato di «poesia metafisica»; si convinse di avere tra le mani un John Donne di Sicilia. «Ma se il fugace è sgomento/ l'eterno è terrore»: così il distico abbagliante che chiude La meridiana. Montale non ha dubbi e invita il poeta a San Pellegrino. Crede, va da sé, che quella poesia fosforescente, «mobile universo di folate/ di raggi, d'ore senza colore, di perenni/ transiti, di sfarzo/ di nubi», appartenga a un ragazzo. A San Pellegrino, invece, si trova di fronte un quasi coetaneo più giovane di cinque anni , un pluricinquantenne, «a sventola le orecchie, mobili e irsute le sopracciglia sugli acuti occhi e un po' sporgenti» (ancora Lopez), che girava con «un'imponente automobile nera d'anteguerra affittata sul luogo» insieme a un tizio altrettanto bizzarro, alto, grosso, nerovestito, con bombetta in crapa e bastone istoriato al braccio.
Nel 1962, alla presenza di Camilla Cederna, Lucio Piccolo, il poeta marziano amato da Montale, nella sua villa a Capo d'Orlando, evocò l'episodio così: «fummo giudicati due mezzi contadini venuti da chi sa dove... Noi ci divertivamo moltissimo. Ricordo il ritorno attraverso la valle del Brembo in un trenino fogazzariano... e se quel legname avesse potuto parlare, saremmo stati lapidati. Riassumevamo infatti tutte le tronfiaggini e i discorsi convenzionali che avevamo udito». Il tizio che accompagnava Lucio Piccolo era suo cugino. Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La gita dei due nobili siciliani galvanizzò le patrie lettere: in seguito al pallosissimo convegno a San Pellegrino, Lucio Piccolo pubblicò con Mondadori, nel 1956, Canti barocchi e altre liriche (con intro di Montale) e il divin cugino geloso del successo di Lucio si attrezzò a scrivere Il Gattopardo. I due, Lucio e Giuseppe, che si appellava «il Mostro», avevano sancito un sodalizio intellettuale fin da ragazzi: leggevano moltissimo, praticavano la magia dell'immaginare, erano culturalmente più aggiornati dei guru dei salotti di Roma. «La tua penna usa a tratteggiar serafini d'azzurro fra selve d'alberi d'oro», sfotteva Lucio, il Principe di Lampedusa, nel 1926, in una delle molte lettere scritte durante il Viaggio in Europa (così l'epistolario pubblicato da Mondadori nel 2006 e ora introvabile).
Lucio, nato a Palermo il 27 ottobre del 1901, ultimogenito dei baroni Piccolo di Calanovella, viveva, insieme ai fratelli Agata Giovanna e Casimiro, in una sorta di mondo a parte, a lato, scortato di spettri, come i fratelli Brontë: «I tre fratelli Piccolo erano squisitamente eccentrici. Nel giardino incantato, accudito da Agata Giovanna, sognavano di allevare salamandre, fatine svolazzanti, silfi, elfi, folletti e genietti con cappucci a pan di zucchero, gnomi e gnomidi, avrebbero voluto coltivarli come fiori, tra le aiuole rigogliose e fruscianti» (Salvatore Silvano Nigro). Entrambi, Lucio e Giuseppe, furono, a contrario, accoppiati e accoppati dalla sorte letteraria. Tomasi di Lampedusa morì nel 1957, straziando Lucio: il suo romanzo, tra i grandi della letteratura italiana, sarebbe stato pubblicato postumo ottenendo, sessant'anni fa, un patetico Strega a mo' di tardivo risarcimento. Lucio Piccolo vide le sue poesie in libreria nel 1960 Mondadori pubblica Gioco a nascondere. Canti barocchi, libro leggendario nel cuore della poesia italiana del Novecento , inaugura un rapporto con Vanni Scheiwiller, che nel 1967, con la sigla «All'insegna del pesce d'oro», pubblica Plumelia.
Riconosciuto come il poeta inclassificabile del secolo installato tra i «percorsi appartati» da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi nell'antologia mondadoriana Poeti italiani del secondo Novecento Lucio Piccolo torna in auge nel 2001 con la pubblicazione, per la Libri Scheiwiller, di Canti barocchi e Gioco a nascondere e di Plumelia, La seta, Il raggio verde (con prefazione di Pietro Gibellini). Nel 2002 lo stesso editore pubblica il carteggio tra Piccolo e Antonio Pizzuto come L'oboe e il clarino. Lucio Piccolo muore il 26 maggio 1969 e i suoi libri non esistono, non sono più ristampati, le poesie sbriciolate nel pozzo dell'oblio. Il 21 gennaio 1973, sul Corriere della Sera, Scheiwiller fa pubblicare una lettera per sollecitare l'attenzione sulla «sorte delle carte del poeta Lucio Piccolo». La lettera, che narra di «controversie giudiziarie» che «impediscono di accedere alle carte del poeta per raccoglierle, sistemarle e pubblicarle», è firmata, tra gli altri, da Montale, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Franco Fortini, Cesare Zavattini. Da allora sono stati pubblicati un fascio di testi inediti, alcune lettere. Pochissimo. E quel poco è editorialmente scomparso.
Lucio Piccolo parlava con splendore retorico almeno tre lingue (spagnolo, inglese, francese), era filosofo per indole, amava i romanzi di Thomas Mann, ha tradotto, per suo gusto, René Char, Marianne Moore, E.E. Cummings; praticava le arti esoteriche e intrattenne un epistolario con William B. Yeats (pubblicarlo era il sogno proibito di Scheiwiller).
Fu poeta, tra i grandi («Cerca/ una sua fase il tempo, e se uno specchio/ si svela ci riflette/ come fummo o saremo; volti/ trascorrono, cui diedero contorno/ l'ansia, l'ignoto... ora ci guardano/ volti senza memoria né rilievo/ se non un guizzo che sapemmo già/ vita nel sole»): perderlo è decapitare gli angeli, dissacrare la lirica.
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