"Il nome della rosa è un'opera aperta"

Tutto esaurito alla Scala per il melodramma dal romanzo di Eco. Parla il compositore, Francesco Filidei

"Il nome della rosa è un'opera aperta"

Pezzo dopo pezzo, battuta dopo battuta, al Teatro alla Scala sta prendendo forma Il nome della rosa, l'opera di Francesco Filidei su libretto di Stefano Busellato dal romanzo di Umberto Eco. Al debutto del 27 aprile seguiranno quattro repliche: tutte sold out. Un melodramma contemporaneo che fa il tutto esaurito? La cosa ha dell'incredibile considerato il grado d'attrazione alla musica di oggi: inversamente proporzionale a quello dell'arte figurativa, moderna e contemporanea, che fa il botto alle aste, nelle fiere e nelle gallerie. Ma il fatto è presto spiegato: titolo potente, compositore di vaglia, cast di lusso, con punte in Vistoli e Barcellona, gran podio, Igor Metzmacher, regia di Damiano Michieletto e scene di Paolo Fantin. Ragion per cui attorno all'atteso debutto, e al suo artefice, è stato cucito il 34º Festival Milano Musica.

Francesco Filidei (Pisa, 1973) s'aggira tra i corridoi del teatro assai pensieroso, da compositore verace, la mente va allo sguardo di Beethoven, di Verdi, di Bach. Lo scritto cui ha lavorato per due anni si fa suono e azione, sta sbocciando. Sotto il braccio ha i due libroni-partiture, sono kolossal: perché tale è l'opera, che è in due atti, conta 21 personaggi, 105 coristi, 90 orchestrali per tre ore di musica. La copertina è rosso fuoco, come il fuoco che Micheletto non farà mancare a chiusura dell'opera illustrando così l'incendio della biblioteca e del libro avvelenato.

È con l'incendio che l'opera toccherà il suo apice?

«Per la verità sono due i momenti grandiosi, quelli del fuoco e del portale dell'abbazia di Moissac dove traduco in suoni quanto ha descritto Eco, quindi i merletti, l'arcobaleno, i quattro animali terribili, i 24 vegliardi, il Dies Irae. Temi poi sovrapposti l'uno sull'altro».

Come si sintetizzano 26 ore di lettura del romanzo in tre ore scarse di melodramma?

«Operando tagli su tagli. Però le parole sono quelle di Eco, ne abbiamo modificata solo una».

Anche lei ha lavorato al libretto?

«È indispensabile. Ho voluto controllare il processo dall'interno perché la musica è la carne che metti sullo scheletro-libretto».

Ha lavorato con modalità verdiane, ovvero tanto bastone e poca carota?

«Quasi. C'è un problema: non ci sono i librettisti di una volta. Per questo ho scelto amici, persone in grado di sopportarmi».

Perché fare un'opera su Il nome della rosa?

«Da questo romanzo sono stati tratti fumetti, film, serie, ma è la musica il mezzo che più di tutti consente di esplorare le piste nascoste del romanzo, i labirinti. E poi è un testo che offre il pretesto per fare cantare i personaggi. Siamo in un monastero, dunque si prega e si canta».

In gregoriano...

«Che è la base su cui ho innestato di tutto. Ci sono personaggi che cantano in modo ottocentesco, altri che fanno il verso al barocco, altri alla contemporanea. Si passa da Perotino a Stockhausen. Del resto, è un tipo di procedere che ho desunto da quello di Eco».

Il quale immaginava i suoi romanzi come sinfonie mahleriane.

«Tali perché farciti di citazioni che si trovano anche nella mia opera».

Qualche esempio?

«Abbondano quelle legate alle parole nome e rosa».

Come Caro nome dal Rigoletto?

«Certo, lo sentirete. Ma anche il tema della rosa dal Rosenkavalier di Strauss, il Cigno di Saint Saens, Martha di Flotow».

Ascolteremo quindi arie nella più pura tradizione operistica?

«I personaggi principali hanno circa tre arie a testa, gli altri una o due. Ognuno ha un proprio modo di cantare. Poi ci sono i recitativi».

Che stile ha scelto per Jorge da Burgos?

«È un vecchio reazionario, gli tocca la serie dodecafonica».

Come ha superato la sindrome da foglio bianco?

«Mi sono chiesto cosa avrebbe fatto Eco se avesse voluto tradurre tutta quella materia che nutre il suo romanzo in un'opera. Eco passò un anno e mezzo a disegnare monaci e biblioteche, fino a quando quel mondo trovò un suo percorso. Io ho trascorso un anno e mezzo coi miei collaboratori, e senza che me ne accorgessi i vari personaggi hanno preso forma da soli, le arie mi uscivano con grande facilità».

La primissima pietra?

«L'ho posata qui, con i ragazzi dell'Accademia della Scala. Lavorammo una settimana intera buttando giù le prime frasi. L'aria di Salvatore, per dire, la scrissi di getto, in cinque minuti. Il grosso del lavoro è comunque l'orchestrazione».

Lo spettatore uscirà dalla Scala con quale messaggio?

«L'ultimo foglio della partitura culmina nella nota appena accennata dei contrabbassi: sale di un semitono riaprendo i giochi».

Perché chiudere con punto interrogativo?

«Perché è un'opera sulla ricerca dell'identità».

L'opera rispetta la scansione delle sette giornate?

«Si ritrovano tutte e sette in un'opera da intendersi come la combinazione di due grandi sinfonie, con tre movimenti e dodici scene nel primo atto e altrettanti movimenti e scene nel secondo. Più il prologo».

Finalmente l'artefice della materia prima, la musica, è lì, in cane ed ossa.

La qual cosa è croce o delizia per gli artisti, considerato che lavorano sempre a opere di musicisti scomparsi?

«Ha centrato il punto. Il confronto con noi compositori è tutt'altro che scontato. Avere il compositore che rompe le scatole non è cosa consueta, ma sia il direttore sia il regista sono collaborativi».

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