Non ci si può affidare all'arbitrio dei giudici

«Nessuna svolta» ha commentato Monsignor Elio Sgreccia, intervistato dal Corriere a proposito delle parole del cardinale Bagnasco sul cosiddetto testamento biologico: la limpida e ostinata difesa della dignità creaturale di ogni persona umana non subisce interruzioni, cedimenti, nemmeno di tipo tattico. A Monsignor Sgreccia bisogna pur credere, visto che è stato per anni il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, guida della bioetica cattolica. Invece non tutti sono disposti a questo atto di fiducia, e qualche dubbio serpeggia: ogni apertura verso una legge appare ad alcuni come un rischioso «slippery slope», un pendìo scivoloso che potrebbe condurre all'eutanasia, ma soprattutto a una drammatica resa al trionfante relativismo etico. Eppure i «paletti» posti dal presidente della Cei sono esattamente gli stessi che si leggono nel documento del Comitato nazionale di Bioetica del 2003, in cui si sollecitava un intervento legislativo che offrisse «un sostegno giuridico alle dichiarazioni anticipate di trattamento». Un parere firmato dal fior fiore dei bioeticisti cattolici: Francesco D'Agostino, che del Cnb era allora presidente, Monsignor Sgreccia, Carlo Casini, leader storico del Movimento per la Vita, Maria Luisa Di Pietro, oggi a capo di «Scienza e Vita», il professor Eusebi dell'Università Cattolica. Nel 2003 il dibattito sul testamento biologico (o meglio: sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento») non era ancora scoppiato sui giornali e in Parlamento, ma i segnali del nuovo corso seguito dai giudici erano già ben visibili. La sentenza della Cassazione sul caso Englaro, che ha costituito un punto di non ritorno, era all'orizzonte, preparata da una lunga serie di sentenze che facevano del consenso informato il cuneo per introdurre il diritto a morire. Questa interpretazione del consenso informato non è rimasta confinata in un ambito giurisprudenziale, ma si è trasferita nella Convenzione di Oviedo (la Carta etica dell'Europa) e nel nuovo codice di deontologia medica. I membri del Cnb hanno avuto la vista lunga, e hanno capito con largo anticipo che una legge era necessaria, esattamente come è avvenuto per la fecondazione assistita. Anche lì è stata necessaria una legge che mettesse ordine, e arginasse le tendenze eugeniste, tutelando insieme, il più possibile, l'embrione e la futura madre. La sentenza Englaro ha semplicemente portato alla luce il lungo movimento sotterraneo che avrebbe voluto condurre all'eutanasia senza nemmeno passare dal Parlamento, senza interpellare i cittadini in alcun modo, solo inanellando una sentenza dietro l'altra. Anche l'ultimo pronunciamento dei giudici, sul caso del testimone di Geova arrivato in ospedale con un foglietto su cui era scritto «niente sangue», è imperniato sulla necessità del consenso informato per qualunque trattamento sanitario, non importa se è in gioco la vita del paziente. Se non si affronta il nodo del consenso informato, dunque, se non lo si disciplina, imponendo regole e garanzie, lasceremo davvero ogni malato sul pendìo scivoloso dell'arbitrio di un giudice. Per ogni nuovo caso giudiziario (e basta considerare che solo i malati in stato vegetativo sono tra i 2 e i 3000) si potrà ricorrere alla ricostruzione degli «stili di vita», si potranno ammettere testimonianze vaghe, dichiarazioni rese via Internet, appunti sparsi, e chissà cos'altro. Per il testimone di Geova il giudice ha ritenuto che il foglietto fosse un po' poco, e che servisse la figura del tutore.

Ma anche per Eluana c'è stata una sentenza analoga, e il via libera alla morte è stato dato solo dopo la nomina di un tutore. Se non vogliamo che le garanzie per il malato si riducano a questo, non c'è che una strada: dobbiamo impegnarci a fare una legge.

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