Oslo - Da quando Al Gore è stato insignito del premio Nobel, è diventato anche un turista di paradossi. Qualche settimana fa ha ricevuto nella Sala Ovale della Casa Bianca le congratulazioni di George Bush, forse l'uomo con cui ha i rapporti più freddi in tutta l'America. E l'altro giorno, quando il Nobel è venuto a ritirarlo dalle mani del re di Norvegia, ha avuto calde parole per il suo vangelo ecologista dai governanti di un Paese che cavalca oggi più di ogni altro il boom economico ed energetico, traguardo per molti e per taluni incubo. Gore ha messo piede a Oslo, per esempio, nel Paese con più miliardari al mondo. America addio: in rapporto al numero degli abitanti la massima concentrazione di ultraricchi è qui. Ciao Texas: la ricchezza viene tutta dal petrolio. Che è il principale carburante della corsa al primato mondiale in cui la Norvegia è impegnata da anni e che di solito vince. Lo conferma statistica su statistica: reddito pro capite, crescita annua, onestà nella vita pubblica, «indice di democrazia», qualità di vita, ovvero «indice di felicità». Quest'ultimo primato, per la verità, le è stato tolto quest'anno dall'Islanda, ma si era confermato sei volte in sette anni. La Norvegia commina in fretta. Anzi, pratica quella «camminata nordica» che si diffonde in altri Paesi e che assomiglia a una marcia forzata con i bastoncini da sci di fondo.
Tutto reso possibile, naturalmente, dai giacimenti subartici di oro nero. La Norvegia è fra i tre massimi esportatori di petrolio assieme all'Arabia Saudita e alla Russia, il tutto per 4 milioni e 700mila abitanti. Ce n'è per tutti, anche perché le entrate sono ben distribuite e un fondo di riserva di 170 miliardi di euro consente di finanziare, per esempio, fondi pensione generosissimi a tempo illimitato, mentre lo Stato non ha un deficit, bensì un surplus di bilancio attorno al 12 per cento. La ricchezza recente contraddice in questo Paese, finora, la «saggezza convenzionale» e produce anche virtù. Per esempio nella produttività per ore di lavoro i norvegesi sono i primi nel mondo, scavalcando anche gli americani.
Figuriamoci gli europei: chiamati due volte a decidere con referendum se aderire o no all'Europa, due volte i norvegesi hanno risposto no. Ricordo la seconda campagna, sonnacchiosa e pittoresca, in cui gli «anti» recavano il loro messaggio sulla schiena passeggiando a cavallo nel centro di Oslo. Più drammaticamente i fedeli di una setta «fondamentalista», ascoltavano un loro pastore definire l'Unione europea «una delle tante incarnazioni di Satana»; e rispondevano, in coro e in vernacolo, «libera nos domine». Una curiosità: la Norvegia è un Paese molto laico, ma per penultimo primo ministro ha avuto, appunto, un «ministro», cioè un pastore luterano. Ed è fedele alla sue peculiarità (i cinque milioni scarsi di cittadini hanno la scelta fra due linee entrambe ufficiali) e alle sue radici più remote. «Sofiens verden» («Il mondo di Sofia») di Jostein Gaarder è la storia della filosofia narrata a un bimba nel linguaggio e un'atmosfera da fiaba. Ha avuto grande successo in tutto il pianeta, tradotto, firmato, serializzato, adattato perfino a videogame, però l'autore, per descrivere la «fase mitica» della conoscenza umana non si richiama, come tutti gli altri, alla mitologia classica greco-romana bensì alle leggende nordiche da Wotan al ragnaroek.
La Norvegia è un Paese dalla lunga memoria (ogni anno di questi tempi il suo re spedisce a New York un abete di Natale, regalo per il Palazzo di Vetro e ringraziamento all'Onu per gli aiuti negli anni bui della Seconda guerra mondiale) immerso in un'attualità rapida: un abitante su cinque è ormai un immigrato, i più vengono dal Pakistan, c'è posto per molti nella grande moschea di Via Groenlandia a Oslo. Gli impiegati comunali di Narvik hanno perso un paio di stipendi perché la crisi edilizia americana ha travolto un progetto in Florida in cui il municipio ha investito i suo risparmi. Il governo vuol chiudere il grande consolato a Minneapolis, cui fanno capo più di un milione di norvegesi emigrati negli Usa nei decenni della grande carestia; e adesso sono più frequenti i miliardari norvegesi che quelli americani. Tutto per un regalo del mare. Due, anzi, che fanno da motori ai primati mondiali della Norvegia. Il primo è il petrolio che c'è in mare, il secondo è l'Eldorado che potrebbe aprirsi nell'Artico profondo con l'estensione di questo mare e la riduzione dei ghiacci. Senza il dono del mare, del resto, la Norvegia semplicemente non esisterebbe. I sette decimi del suo suolo sono terra nuda, meno del 3 per cento è coltivabile. L'estremo Sud del Paese è alla latitudine dei peggiori ghiacci della Siberia, il Nord a quella delle grandi tragedie polari. Il miracolo - lo sappiamo tutti - lo fa la corrente del Golfo, che porta pioggia invece di neve e ha tenuto sgombri dai ghiacci i porti anche nei secoli freddi che abbiamo vissuto. Dai porti si partiva, in principio, non per esplorare o conquistare, ma per pescare, per procurarsi il cibo che l'ingrata terra negava.
Il mare come zolla. Poi terreno di caccia, esplorazione. Sulla tolda del «Fram», un grammofono a gettone gracida in cinque lingue a scelta. Una voce di donna racconta di Nansen e di Amundsen e di Johansen, i ruvidi eroi che con la forza del coraggio, della pazienza e dei rompighiaccio schiusero le vie dell'Artico e poi socchiusero la porta dell'Antartide. Ora il «Fram» è alla fonda nel finto bacino di carenaggio di un museo di Oslo, la passerella offerta ai turisti ma anche ai pellegrini sentimentali, per toccare con mano uno dei massimi monumenti di questa nazione antica anche se come Stato è una delle più giovani d'Europa avendo appena compiuto cent'anni. L'Artico è volta a volta un incubo, una tentazione, un Eldorado. Si restringe e si dilata come una fisarmonica secondo i ritmi delle glaciazioni e dei disgeli. Adesso si sta ritirando e dunque riscaldando, ingoia iceberg e apre vie nuove, a cominciare dal mitico Passaggio a Nord-Ovest. «I mari polari - predicono già gli entusiasti - diventeranno un nuovo Mediterraneo, un nuovo ombelico del mondo». Oppure, dicono altri, «una voragine e in cui potrebbe precipitare l'equilibrio climatico dell'intero pianeta». È così che la pensa Al Gore, che oltre che a ritirare un premio è venuto a rilanciare il suo allarme.
Che si può forse sintetizzare, meglio che nelle sue parole, meglio che nel «suo» film, in un curioso manufatto esposto da poco alla Galleria Modern Tate di Londra: una superficie glabra da percorrere comodamente, ma interrotta a zigzag da una crepa artificiale che a camminare sempre più si allarga.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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