Gli occhi innocenti di Kertész che guardavano oltre il reale

nostro inviato a Parigi

André Kertész aveva un fratello balbuziente, Jenõ, a fargli da consigliere e incitatore, e il suo miglior amico, il pittore Lajos Tihanyi, era sordomuto. Quanto a lui, ungherese di Budapest, per tutti gli anni che visse prima in Francia e poi negli Stati Uniti, non riuscì mai a parlare un francese e un inglese appena decenti. «La fotografia è la mia sola lingua», confesserà in un’intervista: ma era una lingua silenziosa, dove il non detto contava più della parola. Una sua foto del 1920 ha come titolo Il circo: di spalle, un uomo e una donna guardano dalla fessura di un muro lo spettacolo che noi non vediamo... In Al bistrot, del 1927, un gruppo di operai è seduto intorno alla stufa del locale: uno di essi ha una gamba di legno ed è questa che espone al calore... Il Ritratto di Mondrian del 1926, inquadra un tavolo con su due paia di occhiali, una pipa e un posacenere: l’equilibrio degli spazi e dei volumi prende il posto della figura umana, mai così assente eppure mai così presente.
Nato nel 1894, morto nel 1985, considerato da Henry Cartier-Bresson il padre della fotografia contemporanea e da Brassai il proprio maestro, Kertész è ora in scena al Jeu de Paume (sino al sei febbraio) per la prima retrospettiva che ne celebra a tutto tondo la grandezza e ne racconta l’arte allusiva e spiazzante. Agli esordi della carriera, il poeta Paul Dermée lo definirà «il nostro fratello veggente, occhi infantili che guardano come se fosse sempre la prima volta». Da Parigi, dove è emigrato in cerca di fortuna, Kertész scriverà alla famiglia rimasta in Ungheria: «Non so nemmeno dirvi quante belle cose vedo qui che gli altri non vedono».
A torto avvicinato alle avanguardie artistiche fra le due guerre, il surrealismo in primis, per la distorsione di corpi e di oggetti e la frequentazione di un milieu culturale di cui facevano parte Man Ray e Calder, il già citato Mondrian e Eisenstein, Kisling e Prampolini, Kertész fu in realtà più l’artefice di una sorta di fantastico sociale che il teorico di un’altra realtà, costruita, cerebrale, «automatica»... Il fantastico sociale delle strade, delle pensioni e dei caffè celebrato da una certa letteratura a lui coeva: il Francis Carco di La rue, il Marcel Aymé di La rue sans nom, l’Eugene Dabit di Hotel du Nord e il Pierre Mac Orlan di Quai des Brumes che terranno a battesimo anche un certo cinema popolare e romantico, comunque drammatico.
Venutosi a trovare nel momento in cui la fotografia si avviava a divenire un’arte a sé e il fotoreportage ad assumere un ruolo sempre maggiore nell’ambito della carta stampata, Kertész in realtà mantenne una sua linea che lo teneva distante tanto dallo sperimentalismo di Man Ray, quanto dall’impegno sociale e politico che avrebbe avuto la sua definitiva consacrazione con la Guerra di Spagna del 1936. In lui gli specchi deformanti del Luna park del Bois de Boulogne, così come il recupero e la trasfigurazione di certa oggettistica, dai manichini delle vetrine di moda ai pupazzi di legno, alla rivisitazione di utensili di uso comune, posate, bicchieri, vasi, marceranno di pari passo con l’attenzione alle prospettive, ai chiaroscuri e alle luci, finendo per creare una sorta di mondo parallelo dove nulla era ciò che sembrava e tutto rimandava sempre a un qualcosa di non detto, sottaciuto, nascosto. È anche per questo che il gioco delle ombre finisce per essere nelle sue immagini così peculiare. È una sorta di strategia del doppio, la dualità che decompone l’Uno in due entità simili ma opposte, ovvero una sorta di rappresentazione dell’assenza.
Impostata secondo un criterio cronologico, dalle prime immagini ungheresi, paesaggi e volti di pace e di guerra, sino alle foto americane degli anni Sessanta, rarefatte, geometriche, e ai polaroid degli ultimissimi anni, la mostra racconta l’arte di un inclassificabile, timido e solitario per il quale fotografare era un modo di vivere: «Io non faccio semplicemente delle foto. Io mi esprimo attraverso la fotografia».



«André Kertész» sino al 6 febbraio presso il Jeu de Paume, place de la Concorde 1, 75008. Orari: martedì dalle 12 alle 21, da mercoledì a venerdì dalle 12 alle 19, sabato e domenica dalle 10 alle 19, chiuso il lunedì. Per info: Tel.(+33) 01 47 03 12 50.

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