Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
«Glielo incarto adesso o viene a ritirarlo a fine mese?». Le incognite delle odierne elezioni in Brasile si riducono a questa scelta da bottega. Alla fine il «capo» verrà ritirato e continuerà a fare il capo. Ha un nome lungo, una lunga carriera, un lunghissimo margine sul principale avversario. Luiz Inácio Lula da Silva chiede la metà dei suffragi più uno, che gli consentirebbe di essere confermato al potere senza le noie e i rischi di un ballottaggio. Geraldo Alckmin spera in un voto su tre con un po di «mancia», che gli consentirebbe appunto di arrivare al secondo turno. Heloisa Helena si accontenterebbe di un voto su sei, perché il suo scopo è proprio quello: portarne via a Lula tanti da obbligarlo a un ballottaggio. I sondaggi confortano in genere il presidente uscente, con un minimo di oscillazione che potrebbero tenerlo, nellipotesi per lui peggiore, un punto o due al di sotto del 50 per cento, con la vittoria finale comunque scontata.
Lappartenenza politica nominale dei tre candidati principali non fa molto per distinguerli: ciascuno alla sua maniera, si richiama alla sinistra. Perfino il vero, grosso partito della destra moderata brasiliana, quello che esprime Alckmin, si chiama Psd, Partito socialdemocratico. Quello di Lula è il Pt, Partito dei lavoratori; lo stesso di cui faceva parte Helena prima di esserne espulsa per «indisciplina» e di fondare un raggruppamento di estrema sinistra.
Fino a un po meno di un anno fa la gara sembrava aperta. Il primo quadriennio presidenziale di Lula aveva, come sempre accade, accontentato alcuni e scontentato altri; ma i «no» parevano destinati a prevalere. Il vecchio sindacalista arrivato al potere dopo una carriera lunga e tormentata, anche di perseguitato politico durante il lungo regime militare, aveva fatto molte promesse, mantenendole solo in parte. Eletto soprattutto dalle masse più diseredate con slogan e proclami di riscossa popolare e populista, si era convinto abbastanza presto che un Paese come il Brasile, enorme e con enormi problemi, non poteva permettersi di trasformare in leggi gli slogan «rivoluzionari» come può fare o un Paese medio come il Venezuela (seduto però su un cuscino di petrolio) o dei piccoli Paesi in miseria. È per questo che Lula, eletto la prima volta come parte della generale spinta verso sinistra dellAmerica Latina nellultimo decennio, si è poi guardato dal mettere in atto innovazioni radicali che corrispondessero alla sua retorica elettorale.
Il risultato è, come si suol dire, «misto». Qualcosa è stato fatto per i poveri, non abbastanza per i loro bisogni ma neanche abbastanza per minacciare seriamente gli interessi degli altri. Lula si è sforzato di lenire le enormi diseguaglianze economiche, fare qualcosa per le favelas, soprattutto cercare di arginare labbandono della terra da parte di milioni di diseredati. Dunque adesso gli elettori sono contesi da due frasi egualmente tiepide: una domanda, «Tutto qui, Lula?» e una constatazione, «Lula, tutto qui».
Ecco perché lopposizione più aggressiva e colorita al presidente operaio viene da sinistra, o meglio dalle correnti di una sinistra ideologica e «borghese» a un tempo: «Socialisti cristiani», comunisti veri e propri, antiamericani. Per esempio il frate teologo Frey Betto accusa Lula di aver fatto «svanire nel nulla tanti sogni», però lo voterà di nuovo, «perché gliele ha cantate chiare a Bush». Le masse rimarranno con lui. «Il problema - ha spiegato - non sono i poveri. Quelli si accontentano di poco: mangiare e mandare i figli a scuola». Della classe media si potrebbe dire che si è trovata meglio, o meno peggio, del previsto e non è riuscita a mobilitarsi. Anche perché il suo candidato Alckmin si è rivelato mediocre. Egli ha impostato la sua campagna sulla denuncia della corruzione sotto Lula, che è reale e molta e legata a esponenti del partito di governo. Il Pt, infatti, resterà lontano dalla maggioranza in Parlamento.
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