Venezia, Miami, Basilea, Milano, Parigi, Seoul... Sembra l'elenco dei punti vendita di un marchio del lusso, e invece sono le mete del collezionismo internazionale d'alto bordo, o perlomeno quelle raccontate da Emilio Bordoli nel suo Vita da collezionista, appena pubblicato da Allemandi (pagg. 224, euro 30).
È un libro autobiografico, anche se la narrazione di sé del collezionista lombardo si limita quasi esclusivamente alla sua (spettacolare) raccolta di opere d'arte. Ma, si diceva, nelle vite da collezionisti in un certo periodo dell'anno tutti a Basilea per Art Basel, poi a Seoul per Frieze, poi a Milano per Miart e via così, spostandosi gioiosamente di fiera in fiera e di biennale in biennale, in una specie di festa mobile internazionale dove si tiene d'occhio l'andamento del mercato, si fa il punto sugli artisti in rampa di lancio, ma intanto si ritrovano gli amici. E cioè i galleristi, gli art advisor, i curatori, i collezionisti, chiacchierando amabilmente tra una tartina e un bicchiere di champagne, rigorosamente alle preview e agli eventi riservati vip.
Bordoli delle vip card ha fatto addirittura un'opera, un collage che ne contiene 186, raccolte tra il 2000 e il 2020. Lo ha fatto per scherzo, ma forse nemmeno troppo. Dopotutto il collage è incluso nelle tavole fuori testo del volume, riservate alle opere della collezione cui l'autore è più affezionato. È una scelta che aiuta a definire lo spirito con cui l'autore ha scritto questo libro: soddisfatto di sé, raramente autoironico, piuttosto sincero e schietto in ogni pagina, tanto in quelle dove racconta le proprie origini umili di collezionista (la prima opera? Un grande Schifano acquistato in una televendita condotta dal leggendario Francesco Boni), quanto in quelle dove elenca le proprie intuizioni, i successi, gli affari d'oro. Come per esempio la vendita, dopo anni, e con un bel margine di guadagno, di quello stesso, primo Schifano. Non c'è compiacimento, questo è il punto, ma nemmeno false modestie. Così Vita da collezionista racconta senza fronzoli l'arte del collezionare arte, i suoi piaceri, le accortezze, in una sessantina di brevi capitoli dove il ricordo si sofferma sulle opere della collezione, sugli incontri, sui luoghi. Ma su pochissimi artisti.
Emilio Bordoli ha sessant'anni, è nato a Como, città dove si è diplomato in ragioneria e dove ancora abita. Si è laureato in economia e ha aperto uno studio di commercialista a Erba, cui presto si è aggiunta una sede a Roma. Come racconta nel suo libro, agli investimenti in fondi o buoni del tesoro ha sempre preferito quelli nell'arte. Dunque ecco un collezionista con una formazione non certo d'area artistica, che però in poco più di vent'anni ha messo insieme una raccolta di 350 opere che include nomi come Pascali, La Chapelle, De Dominicis, Chia, De Maria, Paladino, Clemente, Goldin, Haring, Pistoletto, Arman, Cesar. Forse non sono tutti «blue chip» (gli artisti dal valore milionario, destinato per certo ad aumentare, come Picasso, Rothko, Hockney), ma sono artisti di peso, nella fascia di prezzo che va da molte decine ad alcune centinaia di migliaia di euro. Di cui però, si diceva, salvo rare eccezioni nel libro si racconta poco. Uno dei suggerimenti che si possono distillare da questa lettura sul come costruirsi una collezione importante? Conoscere gli artisti di persona significa farsi influenzare negli acquisti da amicizie o antipatie, e dunque, secondo Bordoli, meglio di no. Meglio studiare il mercato, esplorarlo, e soprattutto trovare galleristi, critici, curatori che abbiano una visione chiara del contemporaneo e che sappiano dirci con ragionevole sicurezza se un artista contemporaneo ha un futuro. Cioè se vale un investimento. Perché sta molto anche qui, il piacere del collezionare ad alto livello: saper comprare bene e saper rivendere meglio. Saper gustare insomma non solo la bellezza e la qualità delle opere, ma anche la soddisfazione di lasciarle andare al momento giusto. Una collezione non è necessariamente per sempre, ci racconta Bordoli, ma è fluida, cambia col tempo, e porta denari.
Naturalmente è una visione del collezionismo che richiede una capacità d'investimento che pochi hanno. Non solo: è una visione che implica un boccone di difficile digestione per il piccolo collezionista che predilige le visite negli studi degli artisti più giovani e gli acquisti fatti un po' per passione e un po' per mecenatismo: accettare di separarsi dalle opere faticosamente aggiunte alla collezione. E se questo al piccolo collezionista procura un mal di pancia, uno sguardo ancora più in alto, dove la disponibilità finanziaria cresce a dismisura, lo farà trasecolare. Nell'esoterico mondo dei miliardari, sembra di ritrovarsi con la testa al posto dei piedi. Può accadere infatti che le opere fisicamente non le si possieda. Anzi, che nemmeno le si veda. Perché restano seppellite in un caveau a Londra o in Svizzera, e delle opere si acquista soltanto una quota.
Di questo mondo racconta un altro libro di grande fascino, All That Glitters, recente autobiografia di Orlando Whitfield, che è stato amico intimo e per un periodo collaboratore di Inigo Philbrick, il golden boy degli art dealer del jet set internazionale, attualmente in carcere dopo essersi infilato in un cul-de-sac di vendite di quote di dipinti milionari ben oltre il 100 per cento. Philbrick sarà anche un'eccezione, e gli art dealer di altissimo bordo lavoreranno sicuramente nella legalità, ma il libro di Whitfield mostra quanto il mondo dei grandi investimenti nell'arte contemporanea sia una romanzesca zona grigia, dove le operazioni di compravendita sono giochi di prestigio dai contorni avvolti nel mistero.
L'obiettivo tipo: comprare share da un milione di un'opera che ne costa quattro o cinque, e un anno dopo, se l'art dealer è stato bravo a rivenderla, ottenerne il dieci, il trenta, o anche il cinquanta per cento in più. Roba da cinema, verrebbe da dire.Magari diventerà anche un film, ma, intanto, sul caso Philbrick HBO sta davvero lavorando a una serie tv.
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