Maria Vittoria Cascino
da Chiavari
Fino all'ultimo respiro. Jean Luc Godard lo girava nel '59, Adriano ed Elisabetta lo rubavano al sogno. Contro il tempo, contro la morte. Contro tutto e tutti. Per verità. Per amore. Per l'arte che li perdeva l'uno nell'altra, per il coraggio di vivere ogni istante come fosse l'ultimo. Lui era il pittore Adriano De Laurentis, lei è la sua «amica e collaboratrice» Elisabetta Megazzini. Occhi grandi, immensi, che hanno accettato di raccontare una storia smarrita fra le tele dello studio di Via Gagliardo, impigliata nelle terracotta modellate su giovani volti, ferma in una stazione dell'anima a fare i conti con un passato sconosciuto, un presente troppo esplosivo e un lutto ancora da elaborare. Perché Adriano è morto nel gennaio 2003 ed Elisabetta, lì al centro dello studio, la mano posata sulla mano, lo sguardo che rimbalza sulle immagini, la voce sussurrata ma ferma, ci prova a riavvolgere il nastro. Procede per fermo-immagine. È il 1984: la vita passa nei quadri e la vedi Elisabetta, 25 anni compiuti, che con il suo fidanzato scultore entra nello studio di Adriano: «Non lo ricordo quasi. Davanti solo quadri e quadri. Aveva pannellato tutto». Elisabetta non lo conosce «Non conoscevo quasi nessuno a Chiavari. Vivevo altrove la mia vita. Studiavo, disegnavo. Più che altro copiavo. Copiando vai a scuola di segno. Da mio zio scultore ho capito che disegnare è ricreare la realtà».
Elisabetta è un'autodidatta, fa piccoli autoritratti a ripetizione. Sdraiata sul letto, lo specchietto in una mano e la matita nell'altra: «Mi cercavo. Ne facevo somiglianti, altri deformati, ma tutti insieme erano me».
Ed è con questi lavori che Elisabetta torna a bussare allo studio di Adriano, una, due volte, finché la porta si apre è inizia quella liaison dell'anima che riempirà di tracce ogni centimetro della loro vita. «Lo ricordo come in sogno. Vicino all'ingresso c'era un vecchio pianoforte con la cassa armonica rotta. Lo teneva perché non voleva vederlo trasformato in un porta liquori. Stava dipingendo, ma mi ricevette. Era aperto ai giovani. Professore fino al '79, teneva corsi di figura a tempo pieno. Ho intuito che lì sarebbe accaduto qualcosa. L'odore dei colori ad olio, della carta, dei quadri mi inebriava». Elisabetta rimase al centro di quell'universo per due ore.
Tornò una terza volta e sul cavalletto c'era lei: «mi aveva ritratto a memoria. Ero sorpresa, lusingata, deliziata. Continuammo a parlare di arte. Ed io ero lì, su quella tela. Nessuno aveva mai fatto questo per me». Adriano la inizia ai vizi dell'artista, al vagabondare per mostre: «La prima volta mi portò a Milano a vedere Pierre Bonnard. Appesi ci sono i quadri e il pensiero dell'artista. Adriano aveva un'abilità speciale nello spiegare. Autorevole, fermo, cortese, diretto. Gli altri visitatori ci seguivano». Il pittore chiese alla fanciulla di fargli da modella. E' lì, sul grande quadro che Elisabetta ha lasciato sul cavalletto nella penombra dello studio. Lei, nuda, seduta con il capo reclinato sulla spalla. Si chiama «Apparenza». Ci sono i suoi colori, il suo tormento, la sua forza. «I primi tempi era seccato del mio eterno ritardo.Era già pronto con i pennelli, con il fuoco acceso dentro di sé. Gli davo del lei. Non parlavamo del nostro privato. Col tempo s'era creata confidenza. Sentiva che ero anima e movimento. Non solo corpo su una tela da impressionare. Sentiva le mie vibrazioni e le riprendeva». Un pudore fortissimo che diventava voce solo sul Diario: «Trovavo quello che aveva scritto. Gli rispondevo. Le cose ce le dicevamo così. Fra l'arte e il nostro senso umano. Il diario era il binario preferenziale, la voce che bucava il nostro pudore» Le chiese di posare anche per i corsi: «Sapevo che dovevo disegnare, ma riuscii ad aspettare. Stavo per comprendere quale era la mia verità. Adriano mi ha rivelato la mia vocazione». Elisabetta fa i primi disegni: «Partivo dal contorno della figura. Era sproporzionato. Accentuavo alcune parti che poi in seguito ho fatto volutamente. Adriano mi ha insegnato la tecnica. Io ero un vulcano pieno di lava che doveva uscire da un solo piccolo cratere».
Elisabetta comincia a lavorare a tempo pieno. Con Adriano. Allestiscono mostre, visitano mostre. Adriano rimane vedovo. Passa il tempo.
Elisabetta si trasferisce da lui: «Avevo 28 anni, ero sempre fidanzata e continuavo a dargli del lei. I miei genitori non mi rivolgono la parola per un bel po' di tempo. Mia nonna mi disse: Fai quello che devi fare per essere felice. Viaggiano molto. Per paesaggi e mostre. Adriano ama i paesaggi nordici, piatti, e l'acqua soprattutto. La linea dell'orizzonte che separa nettamente cielo e terra. Nel '94 lui si ammala di cancro, un monolite inamovibile. E tu lotti fra alterne speranze e angosce. Il 4 novembre del '95 ci sposiamo. Adriano usciva da un anno di chemio, stavamo grattando il fondo. Ma resiste. Voliamo a Parigi. È il nostro viaggio di nozze. Ci sistemiamo nel Quartiere Latino. Con una sorta di fatalismo guardiamo Parigi. Non c'è futuro. Io non ero mai stata sposata ed era la cosa più bella che mi fosse mai capitata. Ero felice, piena di grazia e disperata». Amore e Morte. E Arte. Quanta Arte straziata e sublimata. Fino all'ultimo respiro. Per sette anni.
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