Ora serve una Fiuggi bis

I numeri contano e conteranno poco sul futuro e sulla fisionomia di Alleanza nazionale, le cifre delle verifiche e della fiducia a Gianfranco Fini non chiariranno i tormenti della destra italiana, che sono storici, ideologici, progettuali. Tormenti inevitabili, sia chiaro, in un certo senso dovuti, perché non è possibile superare in un solo decennio mezzo secolo di solitudine: il recupero dell’idea centrale di libertà da parte della destra e la sua incondizionata legittimazione sono fuori discussione, ma evidentemente bisogna mettere meglio a fuoco l’immagine del partito, fissarne l’identità profonda, definirne i programmi e le prassi interne. Non si tratta di stilare dogmi e rigide ortodossie, ma di indicare una prospettiva culturale che consenta di riflettere le sfaccettature di cui ogni formazione politica si fregia e si sostanzia. Il partito c’è, qualcuno dirà che non è proprio necessario inventarlo, ma si dà il caso che tutti i soggetti politici debbano continuamente registrarsi e in parte reinventarsi, in un contesto fluido qual è quello della transizione italiana. I valori fondanti non cambiano, ma si tratta di interpretarli e viverli, con alleati e avversari, fra sfida nuove e difficoltà vecchie.
Quali che saranno le cifre a favore o contro le tesi di Fini, pare da escludere che il partito possa continuare a funzionare con gli schemi di adesso, con gli attuali frazionamenti ed equilibri di potere. Così come si deve escludere che le stesse correnti possano essere abolite per decreto, o semplicemente perché si decide di ignorarle. Né è pensabile che l’esperienza di Fiuggi, come momento qualificante dell’elaborazione identitaria e della consacrazione dei valori, possa restare unica, come un precedente mitologico. Qualche altra stazione termale s’impone, forse, se non per purgarsi di tossine esiziali per riacquistare linea e slancio.
Gianfranco Fini con la sua relazione all’assemblea nazionale ha fatto sentire il peso del suo carisma, della sua personale vicenda, che è notevole. Forse per questo ha avuto atteggiamenti che sono apparsi di autentica sfida, negando la possibilità di intese, anzi di ipotesi di trattative. In diversi settori del partito si ritiene che An non possa pensarsi senza Fini. E anche se gli oppositori del presidente sostengono che Fini non possa immaginarsi senza An, oggi non sono in grado di indicare un’alternativa, anche perché non ne hanno. I generali si traggono dai colonnelli, è vero, ma non si può rischiare con le ascese troppo rapide.
Il gioco delle mozioni in campo fa pensare a strappi decisi, ma è anche possibile ipotizzare che l’ansia di chiarimento non porti a lacerazioni troppo profonde, irrimediabili. Proprio quel mezzo secolo di solitudine dovrebbe insegnare a militanti di ogni grado che a destra non si può essere gli eterni «ex», perfino gli «ex» di se stessi. Di là del valore oggettivo della coesione interna, ci sono responsabilità ineludibili nei confronti dell’elettorato, di quel popolo di destra che chiede chiarezza, ma non scontri di lunghi coltelli. Chiarezza ed equilibrio, la moderazione che nobilita anche i compromessi.
Sui lavori dell’assemblea si scaricano pure tensioni che non sono esclusive di An e che non toccano soltanto il centrodestra. Si discute di partito dei cattolici o di cattolici, non si dimentichi il peso che, in questa crisi, ha avuto la posizione di Fini sui referendum. L’eredità degasperiana provoca liti che fanno pensare all’immobilità del tempo, come se si potesse tornare indietro.

Si discute di bipartitismo: magari lo si rifiuta, ma si gioca a far gli americani invocando le primarie. In An arrivano gli echi del frondismo folliniano. In politica tutto si tiene e tutto si giustifica. Tranne il suicidio.

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