Un viaggio. Dentro le ragioni dell'amore; ma anche dentro quelle del teatro. Un viaggio quello intrapreso da Orfeo per ritrovare la sua Euridice; un viaggio quello proposto da Damiano Michieletto (nella foto) al Festival dei Due Mondi, col suo magnifico Orfeo ed Euridice. Ecco il segreto di uno dei massimi registi d'opera al mondo, e uno dei pochissimi che sappiano leggere in chiave moderna opere del passato: mettersi al servizio dell'opera; non prevaricarla col proprio narcisismo. Tutti conosciamo il mito di Orfeo, cantore capace di ammansire le fiere con la sua lira, che privato dell'amata Euridice scende fino agli inferi per ritrovarla.
Ma che interesse possono avere per noi, oggi, questo mito classico, e l'opera che da esso trasse Gluck nel 1762? Gli spettatori che alla fine dello spettacolo spoletino (proposto purtroppo per due sole, preziosissime serate) si spellavano le mani ad applaudirlo, avevano scoperto che, in realtà, quello spettacolo parlava proprio a loro; e di loro stessi. Glielo aveva rivelato Michieletto con un'interpretazione originale ma questo il miracolo - rispettosissima dello spirito gluckiano. Per lui Orfeo ed Euridice sono una moderna coppia in crisi, con lei che arriva al suicidio e lui che, resosi conto troppo tardi di quel che ha perso, ottiene di scendere agli inferi per ritrovarla. Il suo viaggio diventa, cioè, quello che ciascuno di noi compie dentro i propri errori, nel tentativo d'imparare ad amare in modo diverso, e accettando di soffrire, pur di riuscirci. Tutto questo teatralmente reso con l'insuperabile magia scenica che Michieletto, assieme ai fondamentali collaboratori Paolo Fantin alla scenografia, Alessandro Carletti alle luci e (stavolta) Klaus Bruns ai costumi, sa infallibilmente produrre. Così l'accecante biancore di uno stilizzato spazio neutro dà corpo prima al gelo che separa i due protagonisti; poi alla stanza d'ospedale in cui giace Euridice; infine, aprendosi sugli inferi come in una sorta di enorme obiettivo fotografico, fa spettacolare contrasto col nero delle anime, cioè dei coristi.
Il momento in cui Orfeo, girandosi a guardare l'amata, viola il patto provocandone il nuovo inabissarsi, è un altro momento di grande teatro. E all'happy end conclusivo si scatenano liberatori gli applausi di un pubblico che non ha solo assistito ad un grande spettacolo; ha viaggiato dentro sé stesso.
Protagonista vocale indiscusso, coinvolgente ed emotivo nonostante il composto rigore della musica gluckiana (finemente cesellata dal direttore Antonello Manacorda) è stato Raffaele Pe: una superstar fra i controtenori, che con la sua voce da contralto femminile spiazza gli spettatori tradizionali, ma entusiasma i fan di quest'uso barocco riesumato dai gusti moderni.
Validamente gli ha tenuto testa l'Euridice disegnata da un'intensa Nadja Mchantal; mentre brillante è risultato l'Amore di Susan Zarrabi, una sorta di dispettoso «magician» in cilindro e frac di paillettes. Vedere spettacoli di un tale, intelligente livello - infine - risarcisce di tante, troppe regie d'opera di arrogante insulsaggine.
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