Trieste «Quando ho visto la fotografia di mio figlio Eugenio, sotto la minaccia dei mitra, ho vissuto un momento di disperazione. Poi ti rassereni con le notizie che lui e gli altri italiani nelle mani dei pirati somali sono ancora vivi, ma è come un'altalena. Minacciano di decapitare il primo ostaggio e ripiombi nell'angoscia» racconta a Il Giornale Adriano Bon. Da sei mesi il pensionato triestino, assieme alla moglie, è in angoscia per la sorte del figlio Eugenio, 30 anni, ufficiale della Savina Kaylin la petroliera sequestrata dai bucanieri somali nell'Oceano indiano.
La nave è alla fonda nella rada di Hoybo, circa 500 chilometri a nord di Mogadiscio. La Tortuga somala dove ci sono una trentina di navi abbordate ed oltre 700 marinai di mezzo mondo. Quelle italiane sono due, di proprietà dei fratelli D'Amato, entrambi armatori. In mano ai corsari si contano 11 connazionali. Le foto choc degli ostaggi della Savina Kalyn sono arrivate via fax dalla petroliera il 9 giugno. In parte erano già circolate, ma tirarle fuori è un mezzo disperato di pressione dopo sei mesi di inconcludente silenzio stampa. «Abbiamo deciso di renderle note per far vedere come trattano mio figlio ed in che condizioni si trova l'equipaggio - spiega Bon - Forse è solo una messinscena per ottenere il riscatto, ma i pirati hanno minacciato di portare a terra Eugenio ed altri due ostaggi. Prima, quando era sicuramente a bordo, l'ho sentito al telefono satellitare 3-4 volte. Poi non sono più riuscito a parlarci».
Le drammatiche immagini sono in bianco e nero perchè le hanno scattate e poi spedite via fax. I tre ostaggi, con Eugenio sulla destra, a torso nudo, barba e capelli folti, si trovano sotto una tenda o in una capanna. Un gruppetto di ragazzini armati e mascherati li tiene sotto la minaccia dei fucili mitragliatori kalashnikov. Uno dei pirati ha un nastro di proiettili da mitragliatrice attorno al collo ed un altro un lanciarazzi a spalla Rpg. Le kafye coprono i volti e quello che tiene sotto tiro Eugenio Bon porta un caschetto da cantiere, probabilmente rubato su qualche nave. I tre ostaggi italiani sono legati alla buona fra loro con delle funi, ma la foto sembra fatta apposta per spillare velocemente il riscatto. «Il 17 giugno sono arrivate minacce terribili. L'equipaggio stava malissimo e avevano poco da mangiare e da bere. Mancavano le medicine e non si potevano lavare. I pirati hanno detto che se non si sbloccava la situazione avrebbero cominciato a decapitare il primo ostaggio. Poi ci sono stati oltre 50 giorni di inspiegabile silenzio» racconta il padre di Eugenio.
Fonti governative garantiscono che se ci fossero state brutte notizie si sarebbe saputo, grazie alle antenne dei servizi in Somalia e al controllo satellitare della Tortuga dei pirati. Nelle ultime ore un giornalista del sito www.liberoreporter.it è riuscito a parlare con il comandante della nave, Lubrano Lavadera. Il comandante ha ammesso che «oramai lo stremo è passato da un pezzo. Manca tutto e hanno razionato l'acqua potabile per farla durare altri sei mesi». La petroliera, senza carburante per accendere i motori, rischia di finire alla deriva incagliandosi. «Siamo sconfortati e non più in grado di resistere, sotto il tiro dei mitra» ha ribadito il capitano appellandosi all'armatore per risolvere il sequestro. Secondo il padre dell'ostaggio triestino «i pirati vorrebbero dai 14 ai 16 milioni di dollari. Luigi D'amato, l'armatore, che non riusciamo a contattare direttamente, ha deciso che può pagare una certa cifra e non si smuove».
I fondi riservati dei servizi, come è già capitato in Iraq ed Afghanistan, potrebbero coprire il resto.
I familiari, che vogliono solo avere notizie certe dei loro cari, sono stati ricevuti dal Papa. «Abbiamo inviato una petizione al presidente Giorgio Napolitano chiedendo un suo intervento - spiega Bon - Speriamo che lo faccia e che serva a sbloccare la situazione».
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