Un Paese di 64 anni giovane e robusto

di «Quando sarò vecchio e perderò i capelli, fra molti anni, mi manderai ancora biglietti d’amore con gli auguri per il compleanno e una bottiglia di vino..». Insomma sarai ancora la mia gratificazione preferita, il mio narciso sentirà il bisogno indispensabile della tua esistenza... Chissà, «avrai ancora bisogno di me, mi nutrirai ancora, quando avrò 64 anni»...
A ritmo più frenetico di quello dei Beatles i Churchill, gruppo rock israeliano in questi giorni ha prodotto a sorpresa l’antica canzone. Perchè Israele da ieri sera festeggia per tutta la giornata di oggi il suo 64esimo anniversario, e i Churchill a suo nome cantano: Will you still need me? Hai ancora bisogno di me, come quando l’Onu disse «Yes» alla partizione cercando di restituire un senso morale alla sua esistenza, come quando Ben Gurion accettò e gli Stati arabi si lanciarono in guerra? Il mondo ha ancora bisogno di Israele? Crede in lui, nella sua indispensabilità, o potrebbe lasciarlo andare nelle fauci dell’islam estremo? È pronto ad affiancarlo di fronte ai pericoli che lo minacciano comprendendo che minacciano lui stesso? Will you still feed me? Gli porgerà la mano in questa fase di minaccia di distruzione? Ha ancora bisogno di Israele, la terra dei pionieri, della vita semplice e eroica, del sacrificio? E Israele porta ancora quel sè visionario e grandioso che ha riscattato il mondo intero dalla paura di essere divenuto il mostro che aveva divorato il popolo ebraico, suo padre, il suo fratello maggiore, l’inventore della coscienza, della storia etica di tutto il mondo Occidentale?
Israele è un Paese felice nell’età matura, contento di ciò che ha saputo costruire col miracolo della volontà. Ieri sera è entrato nella sua 64esima puntata della gioia e della sorpresa di esistere come sempre con balli e canti dopo una terribile giornata, la solita di tutti gli anni: la sua determinazione al sacrificio degna delle Termopili è stata testimoniata alla radio, alla tv, nelle cerimonie pubbliche dalla memoria di madri, padri, fratelli, vedove, fidanzate dei 23mila israeliani, quasi tutti ragazzi di leva, caduti nelle guerre e di 2500 civili assassinati dal terrorismo. Ognuno ha un nome, una storia, ogni famiglia raccontava ieri quanto il suo Yossy, Ronni, Allon, Joseph, era allegro e gentile e innamorato, mai una parola d’odio nè di rancore verso chi li ha uccisi, sempre con l’aspirazione alla pace che poi Netanyahu e Peres hanno ripetuto nei discorsi ufficiali. E alla fine con la determinazione di ripetere più o meno implicitamente a tutti, anche se si parla della persona più importante di te stesso: «e nonostante questo, non me ne andrei mai da qui». When I’m 64, sarò sempre Israele. Di fatto il Paese che così tanti amano odiare, su cui ogni giorno si gettano tonnellate di delegittimazione ha seguitato sempre, come un vulcano di miracoli, a fornire buoni motivi di ammirazione, di stupore.
Nonostante le domande degli amici («ma dici che posso partire?») oggi è uno dei Paesi più sicuri del mondo, uno dei pochi, per i viaggi; i sistemi sociali di protezione della salute e di garanzia dell’educazione sono fra i migliori del mondo; il rispetto dei diritti umani, religiosi, sessuali, la libertà di stampa e di opinione, il rispetto delle minoranze (certo considerando che si cerca di evitare almeno parte del terrorismo sempre in movimento) sono fra i più robusti dei Paesi occidentali, pur sviluppandosi in un’area mediorientale; il numero di feriti e morti nel conflitto permanente con un nemico che ti irrora di missili e di attentati e di odio è fra i più bassi del mondo; il sistema giudiziario il più determinato a non guardare in faccia nessuno. L’88 per cento degli israeliani sono fieri di esserlo, il 78 per cento considera l’esercito in cui si serve se maschi per tre anni e se donne per due, come un simbolo del Paese.
Con tutti i pericoli che li circondano gli israeliani sono fieri che il codice dell’esercito sia severissimo, come si è visto recentemente nello scandalo enorme per lo scatto di violenza del comandante Shalom Eisner, che ha tirato una botta in testa a un dimostrante. È la forza della coesione di un Paese che crede nel significato della sua esistenza quella che mette Israele in grado di pensare contemporaneamente all’Iran, di avere un esercito fra i migliori del mondo, una democrazia in cui religiosi e laici, pacifisti e coloni non smettono di scontrarsi, di affrontare con una riforma micidiale i suoi problemi sociali ed economici (la commissione Trajtenberg è stata un colpo di frusta all’intera organizzazione socio-economica)..

e insieme di essere il maggiore inventore di high tech del mondo insieme agli Usa? Come fa Israele a produrre premi Nobel a catena (l’ultimo a Dan Shechtman per il quasycristal); scoperte dirompenti nella fisica e nella medicina al limite di un imperativo che proibisca infine gli orrori dell’Alzheimer, della sclerosi multipla e altre dannazioni;innovazioni legate al computer del livello dell’invenzione del laptop? Nel suo 64esimo, il messaggio di Ahmadinejad è «Israele è un tronco ammarcito da distruggere». Anche l’anima si può distruggere, la storia ce l’ha dimostrato più volte. Ma stavolta sembra che sarà difficile farlo, a 64 anni Israele è molto giovanile e robusto.

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