Sino a qualche anno fa per arrivare a Sorrento, una volta giunti a Castellammare con la ferrovia, bisognava servirsi di certe vecchie vetture tranviarie verniciate di verde che in numero di tre per volta, a distanza di un'ora da ogni corsa, ti conducevano a destinazione caracollando lungo le tortuose giravolte della strada panoramica. Intervallate di qualche metro, a guardarle di lontano parevano i pezzi d'un trenino per bambini smontato e disarticolato, e quel rumore stridulo di ferraglie che ne accompagnava il percorso concorreva a dare la sensazione d'un vecchio giocattolo arrugginito. A sinistra incombeva la catena dei Lattari, di fronte dopo i pochi metri della via digradavano le vallate d'ulivi dall'alta terrazza sino al mare: e se un poco di vento veniva a increspare la superficie dell'acqua, ne rabbrividivano anche gli ulivi, mutandosi in spirali argentee di fumo o, col giuoco delle loro chiome discinte.
Adesso che uno comodissimo treno ti trasporta da Napoli direttamente a Sorrento in un'ora, metà di quel paesaggio è scomparso: la ferrovia privata della Circumvesuviana ha allungato il suo percorso, e le rosse e linde vetture giunte a Castellammare imboccano una lunga galleria arroventandosi verso Sorrento. Il sei gennaio del 1948, quando s'inaugurò il nuovo tronco, fu un giorno particolare per i sorrentini: quella notte non soltanto i bambini appesero la calza ai piedi del letto o davanti al camino; si sapeva che la Befana portava un regalo straordinario per tutti, nientemeno un treno, che sarebbe giunto per la prima volta a Sorrento nella mattinata, festosamente addobbato di bandierine tricolori. E De Gasperi che si trovava in una delle vetture, venuto apposta per la cerimonia, dinanzi alle feste e alle acclamazioni dei contadini assiepati lungo il binario dovette sentirsi un po' Ferdinando di Borbone quando, poco più d'un secolo addietro, inaugurò il tratto Portici-Caserta, che era il primo tronco ferroviario dell'epoca.
Peccato che metà del percorso è al buio, essendo stato scavato un lungo traforo nella montagna, e solo ogni tanto una stazioncina o uno spicchio d'aria vengono a schiarire il viaggio anticipando la vista del mare, della vegetazione, della stradina che si snoda come un nastro e dove ora le macchine e le carrozzelle sono le indisturbate signore: ma subito dopo Seiano, a Meta, ritorna la luce, ritornano i giardini con i loro penduli e agresti profumi che s'affacciano dal muro, e il treno sguscia tra essi portandosi dietro l'odore delle rose che si sfogliano sopra le piante e quello dei fiori d'arancio che sembrano di cera, così bianchi e immoti. Tra i rami pendono come globi luminosi le arance e i limoni, appaiono i primi tetti di tegola color salmone, e le prime case bianche di Sorrento.
Sorrento è una cittadina pulita e accogliente che al primo sguardo rivela la fondamentale sanità della sua gente. Il turismo, che pure v'è sviluppatissimo, e il lungo soggiorno delle truppe alleate, non sono riusciti a introdurre in questo paesaggio morbido e armonioso il clima falso delle città e delle stazioni cosmopolite. I pescatori, gli artigiani locali, operosi e miti come monaci medievali, le donne con il loro passo diritto e scandito, conservano un intatto senso della vita, e lo stesso dialetto ha mantenuto la sua morbida cadenza senza lasciarsi guastare dal gergo dei visitatori.
Ora ch'è venuta la stagione calda, i vetturini, gli autisti di piazza e le guide inalberano i loro berretti bianchi dei quali sembrano particolarmente lieti, e c'è nell'aria una luminosità di colori quasi smaltata. Ad affacciarsi da una delle terrazze sul mare, ci si trova di fronte a un'acqua d'un colore così azzurro e intenso che sembra restare nelle mani, a toccarlo. È lo stesso mare liscio e compatto che Shelley disperatamente romantico vide «non calpestato», sul quale ogni tanto appare una vela bianca, paziente, o una barca a remi, e se uno dei pescatori canta qualche vecchia canzone locale o anche un motivo più moderno, a sentire quella voce che sale dal fondo della barca sino al terrazzo non si sa più se incrini il silenzio, o se armonizzi con esso, invece. Un'aria di favola fa respirare invisibili presenze d'altri tempi, e sembra di dover parlare sottovoce per non turbare i misteriosi padroni del luogo, sembra di vivere nel mito, e che Pan, l'eterno, sia per uscire dai boschi. Si sente, insomma, che qui Dio disse agli uomini d'essere felici: e forse la storia dcl Paradiso Terrestre è la storia di chi guasta quel che ci è dato di poter vivere in pace.
Tutta Sorrento è costruita sopra un'alta terrazza di tufo: giù, si trovano il piccolo porto e le «marinelle» per gli stabilimenti balneari che insabbiano l'estate le loro vivaci palafitte e, a sinistra, verso la periferia, il quartiere dei pescatori con la sua chiesa e la spiaggetta sempre colma di reti da rammendare. E la vecchia Sorrento, e il quartiere rassomiglia a una minuscola «casbah», ma pulita e mansueta, dove l'odore della salsedine regna padrone: dai balconi sbattono come segnali al vento i panni stesi ad asciugare, i gerani fioriscono nelle lattine delle scatole alleate. Un piccolo quartiere silenzioso, che tutta la gente sembra riversarsi sulla spiaggia, tra i pescherecci tenuti in secco e le reti sbrindellate alle quali lavorano pazienti, tenaci e taciturni vecchi pescatori dalle gambe nodose e i lineamenti asciutti. E c'è odore di mare, e del legno stagionato delle barche, e di conchiglie essiccate al sole.
L'unica nota stonata, in tanta sincerità, è data dalle numerose coppie di sposi che vengono qui per la loro luna di miele, e si riconoscono da quell'aria impacciata e sazia tutta impudica che luccica in fondo ai loro occhi. Si sa che anche la tradizione canzonettistica ha proclamato Sorrento il paese delle sirene e dell'amore, e sposi se ne incontrano continuamente: in una stradicciola deserta incassata fra i giardini che scende al mare; in piazza seduti davanti a un caffè con la macchina fotografica e la borsa di paglia, recentissimo acquisto, accantonate sulla sedia attigua; nella bottega di qualche artigiano a comprarsi l'immancabile ricordo di Sorrento, che sarà di volta in volta un portasigarette o un paio di nacchere o uno scrigno, tutti di legno lavorato e intarsiato. Queste botteghe sono frequentissime, lungo il corso del paese, dove al negozio elegante che offre dietro le sue vetrine gli oggetti lucidi e pronti s'alterna l'oscura falegnameria in cui l'artigiano pialla il legno, lo lavora, lo sega, l'incastra, confezionando i vari oggetti e persino i mobili, con la guida del garzone che più spesso è il proprio figliuolo. Perché questa nobilissima tradizione si tramanda dal padre al figlio, da generazione a generazione, con una gentilezza tutta latina e un umile amore, costituendo in tal modo quasi delle caste, e a volte qualche famiglia si esaurisce e l'ultimo discendente si spegne portandosi dietro il segreto del proprio mestiere.
D'altronde a tenerne sempre vivo e operante l'amore provvede l'istituto d'arte di tarsia e di ebanisteria, che dopo gli anni duri della guerra e dell'invasione ha ripreso la sua attività con la guida paziente del suo direttore Giulio Jaccarino e con la presidenza dell'architetto e acquafortista Roberto Pane. L'istituto sorge nel vecchio e piccolo convento di S. Francesco, accanto alla villa comunale, e vi si giunge dopo un giro di bianche e chete stradine dove tutto, dalla piazzetta ai corti viali della villa con i loro busti di bronzo che commemorano glorie cittadine (ma per Tasso c'è il monumento nella piazza principale), sembra l'immagine d'un giocattolo, per lo meno d'un paese in miniatura. Nel chiostro trecentesco che ha al centro qualche salice spampanato e intorno il giro del suo colonnato, si respira già il silenzio dei vecchi cenobi: a destra sono i monaci, infatti, una piccola comunità di francescani, e la scala a sinistra porta alla scuola, e anche qui potremmo dire che il direttore dell'istituto, gli insegnanti e gli allievi, con il loro lavoro fatto soprattutto d'una esercitata e silenziosa pazienza, sono altrettante creature votate alla rigidezza d'una regola: il lavoro.
Quanto al materiale, ci si serve solitamente di legni nostrani, il legno sorrentino d'arancio e del limone, per i colori bianchi, e così il legno del cedro, del pero, quello marrone del mogano: ma per ottenere taluni effetti luministici ai vari tasselli che compongono il lavoro bisogna aggiungere legni stranieri, dal legno zebra del Brasile a quelli tropicali che arrivano dalle Indie, in tal modo si dispone d'una variatissima gamma di colori, dal viola dell'amaranto al rosato dell'acacia, e si ottengono spesso, nella esecuzione d'un pannello o d'una cassa o d'un soprammobile, risultati che lo stesso acquerello ignora, e tutto è sempre lavoro di pazienza, le sfumature non sono corrette dal pennello, anche il giuoco d'un'ombra è il risultato d'un incastro minuto.
Ad osservare questi artigiani prendere con gesto amoroso e delicato i foglietti di legno, segarli secondo le linee del disegno tracciatovi, incastrarli, par di capire meglio perché Sorrento abbia resistito all'urto della guerra e delle invasioni che pure ha mutato città di più complesse tradizioni e di più antica storia.
I sorrentini hanno una nascosta saggezza che proviene loro dall'attaccamento al lavoro, dalla consapevolezza modesta, dalla inesprimibile bellezza del loro paesaggio, perciò dinanzi agli stupori degli stranieri conservano la propria schiva tranquillità: al più, c'è una luce appena maliziosa, in fondo agli occhi, ma è solo un guizzo: essi sanno che è giusto stupirsi e restare affascinati del loro mare e dei loro giardini, e dunque è inutile darsi importanza o, peggio, tentare di sfruttare quella meraviglia. Per questo a Sorrento si ha sempre l'aria di stare in famiglia, e anche i grandi e lussuosi alberghi conservano la gentilezza domestica d'una pensione.«Le vie d'Italia», giugno 1950
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