Arsenico, mandragora e tanta fantasia. Viaggio nel Medioevo più tossico (e fashion)

Beatrice Del Bo racconta l'Età di mezzo dall'insolita prospettiva delle botteghe degli speziali, quei luoghi dove chimica e magia si incontravano

Arsenico, mandragora e tanta fantasia. Viaggio nel Medioevo più tossico (e fashion)

Il Medioevo come un'epoca ad alto livello, quanto a chimica e altre scienze, anche se di scienze venefiche. È quello che racconta Beatrice Del Bo, professoressa di Storia economica e sociale del Medioevo all'Università Statale di Milano, in Arsenico e altri veleni (Il Mulino pagg. 302, euro 17). Del Bo spiega al lettore che noi siamo abituati a immaginarci il veleno come una sorta di arma segreta utilizzata nelle latebre dei castelli, in stile romanzo gotico, oppure nelle mani di dame crudeli e ammaliatrici mutuate da una Lucrezia Borgia da melodramma ottocentesco, basti pensare a quello firmato da Donizetti. Anzi, il grado zero di questo immaginario è addirittura la regina cattiva della favola di Biancaneve. Però la realtà medievale era molto diversa. Il veleno era un elemento della vita di tutti i giorni. E il suo uso era tutt'altro che una pratica per iniziati. Insomma, Del Bo guida il lettore in un Medioevo tossico dove dall'arsenico alle piante, ai funghi carichi di alcaloidi, ai serpenti, il pericolo striscia un po' dappertutto e il veleno è di casa in quasi ogni situazione.

Troviamo botteghe ricolme di sostanze pericolose, quelle dei cosiddetti speziali. Le spezierie sono frequentate da una clientela variegata e in buona parte danarosa. Si va dalle innocue leccornie al miele all'arsenico il re dei veleni dell'età di mezzo. E lo speziale in effetti spesso non gode di buona fama. Come del resto tutte le persone che alterano la natura di ciò che Dio a creato. Al contempo è un super tecnico che insieme ai medici dispensa vita e morte. Non a caso a uno speziale si sarebbe rivolto papa Alessandro Borgia, nel 1498, per mettere in atto il progetto di una intossicazione di massa dell'esercito francese accampato in quel di Ostia.

Ecco, Borgia. Se si parla di veleni si pensa a Lucrezia, ma la grande esperta della chimica rinascimentale è la temibile Caterina Sforza (1463 - 1509) signora di Imola e di Forlì e madre di Giovanni dalle Bande Nere. A latere della politica e delle guerre, soprattutto nel suo esilio fiorentino, si dedicò ai suoi Experimenti e alle ricette di bellezza conservate nel suo A far bella. Temuta dai nemici e capace di presentarsi in battaglia con un falcione, Caterina era bella davvero. Ma i suoi intrugli di bellezza erano quantomeno tossici. Roba da avvelenamento fashion. Tra i componenti più comuni: arsenico, allumi, l'argento vivo (leggasi mercurio), il piombo, la ruggine...

Quindi che si trattasse di truccarsi o di avvelenare, le differenze tra i prodotti utilizzati erano davvero poche. Eliminare qualche macchia dal viso? Niente di meglio che unire biacca e argento sublimato, nel corpo di un colombo a cui siano state tolte le interiora, e ben cucito, e poi cuocerlo in acqua. Il risultato poi applicarlo sul viso. Come dire, rende belle da morire. Non stupisce poi che quando si va ad analizzare le ossa di molti dei nobili dell'epoca è molto difficile stabilire se ci siano tracce di avvelenamento volontario. Bastavano le tinture per gli abiti e le contaminazioni dei cosmetici per lasciare tracce consistenti di sostanze tossiche su e negli scheletri.

Ma qualche volta ciò che si sviluppa non è proprio un incidente. Ambrogina Demiano, in quel di Milano, correndo l'anno 1376 spedisce l'amica Fiorella da Molceno a comprare dell'arsenico dallo speziale Pietrolo di Canzio. Lo speziale si fa qualche domanda, nonostante l'arsenico fosse usato anche per i più banali cosmetici, e chiede a che cosa serva. Fiorella candidamente dice che è per l'amica Ambrogina, e allo speziale tanto basta. In effetti è ritenuto innocente. Però l'arsenico finisce nella pancia del marito di Ambrogina, insieme a una polentina di farro. Ambrogina è condannata in contumacia alla decapitazione dieci anni dopo, per poi venire graziata in una bella amnistia voluta da Gian Galeazzo Visconti per festeggiare la sua nomina a Duca.

La vicenda insegna due cose: che l'avvelenamento è tanto borghese e non necessita delle corti, e che la giustizia antica era persino meno giusta di quella contemporanea. Ma Del Bo accompagna il lettore anche tra i boschi e le piante venefiche. Tra le leggende sulla mandragora, anche di machiavelliana memoria, tra gli scaccia veleni e dentro la scienza officinale che tanto ha dato alla medicina moderna. Quando avrà finito questa corsa attraverso vasi, alambicchi, albarelli, pissidi e ampolle - nel Medioevo ogni sostanza vuole il suo apposito contenitore, pensato in base alla teoria galenica degli umori - il lettore avrà davanti un Medioevo molto diverso da quello a cui è abituato. Un Medioevo, se non chimico almeno alchemico e coloratissimo. Ma attenzione: il colore che predomina è il giallo veleno.

Per di più, in cauda venenum, avrà imparato anche un sacco di cose su espressioni che si usano comunemente, senza sapere perché.

Ad esempio: quando si fa una risata veramente sardonica? Quando siamo strafatti di sardonia, una pianta erbacea delle Ranuncolacee, che provoca la contrazione dei muscoli facciali (magari prima di ucciderci).

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